“Musica contemporanea: la fuga del suono” di Serge Cottet

In omaggio a Serge Cottet

 

In omaggio a Serge Cottet, psicoanalista dell’Ecole de la Cause freudienne e dell’AMP, scomparso all’improvviso il 30 novembre 2017, la rivista lacaniana online Lacan quotidien (https://www.lacanquotidien.fr/blog/) nel suo numero 752 ha diffuso un suo testo, pubblicato in precedenza nel numero fuori-serie de La Cause du désir intitolato “Ouï! En avant derrière la musique” a cui aveva contribuito a vari titoli. Musicista e psicoanalista di lunga esperienza, Serge Cottet ci illumina sulla musica contemporanea, a partire dalla sua lettura psicoanalitica.

Io, per ricordarlo, per ringraziarlo di quanto mi ha permesso di a-prendere e per cercare di volgere in italiano il suo sempre vivo “desiderio dello psicoanalista”, ho deciso di tradurre il suo articolo intitolato:

 

“Musica contemporanea: la fuga del suono” di Serge Cottet

 

Uno sganciamento che fa sintomo: l’effetto Joyce

Che cosa, nella musica contemporanea, merita l’orecchio dello psicoanalista? Si dirà: nulla di ciò che è moderno può essergli estraneo. Si ripete che l’artista precede la psicoanalisi; quest’ultima alla fine l’ha raggiunto? È giunto il tempo che essa comprenda?

Varèse, negli anni ’30, pensava che la musica fosse in ritardo sul suo tempo: “Ai giorni nostri, la musica è a un punto morto perché non è in contatto con il mondo attuale”. (1) Oggi è piuttosto l’inverso. Si direbbe che c’è un ritardo del gusto rispetto alla creazione; l’avanguardia musicale degli anni ‘50-‘60 non si è imposta sino ad oggi e ha raggiunto solo un pubblico limitato. Questo sganciamento fa sintomo e deve essere interrogato dal punto di vista della psicoanalisi, che non manca di strumenti per valutare il messaggio contemporaneo. Per Varèse, uno dei maggiori innovatori della musica del XX secolo, la musica non ha saputo approfittare della tecnologia scientifica; ha utilizzato solo tardivamente le possibilità che la scienza permetteva, per un rinnovamento della creazione e della diffusione musicale. Sin dagli anni ’30, egli faceva appello all’avvento di una tecnologia del suono e di nuovi strumenti che avrebbero dovuto sconvolgere la scrittura musicale. L’invenzione del nastro magnetico, dell’elettroacustica, della diffusione di massa degli anni ’60 ha soddisfatto, in parte, la predizione di Varèse. Ricordiamo che l’orchestra sinfonica è rimasta pressappoco identica a se stessa, da Haydn a Stravinsky, a parte le percussioni che presto avranno un ruolo dominante. (2) All’epoca in cui Varèse fa questa amara costatazione, negli anni ’30-’40, negli Stati Uniti, lo stile neoclassico fa ritorno in reazione alla scuola seriale di Schönberg. Per Varèse si tratta di una regressione rispetto al punto di riferimento costituito dal romanticismo – sia che non se ne esca sia che si ritorni indietro.

Varèse ha conosciuto e frequentato tutti i grandi compositori del XX secolo, da Debussy a Boulez. Non è stato il primo ad insorgere contro il romanticismo e la musica tedesca. Già con Debussy, Ravel e Stravinsky, si apre tutto uno spazio sonoro nuovo, in opposizione alla declamazione lirica, all’opera italiana, alla melodia sdolcinata.

Ebbene, questa insurrezione si è realizzata prendendo diverse direzioni; possiamo considerare due assi costituiti da Debussy e Stravinsky. Un celebre articolo di Jacques Rivière (3) li opponeva considerandole due nuove tendenze irreconciliabili della musica moderna. Dopo aver ascoltato Le Sacre du printemps, (4) l’autore opponeva punto per punto Debussy e Stravinsky. Al “nuagismo” allusivo del primo, rimarcava in Stravinsky la trasparenza della musica a se stessa, nient’altro che essa stessa, senza allusione. Qualifica la musica di Stravinsky come una musica aspra, dura, senza fuga, senza eco, senza sviluppo: “La sua voce si fa simile all’oggetto, lo consuma, lo sostituisce; invece di evocarlo, lo pronuncia”: è “il desiderio di esprimere ogni cosa alla lettera”. Pur tuttavia, quel “barbaro” non ha mai ceduto sulla necessità della melodia. Per questo motivo, egli esclude dal Pantheon dei grandi musicisti Beethoven, scadente melodista, e Richard Wagner che affoga la melodia in un continuum orchestrale interminabile.

Con Debussy è l’inverso: l’allusione, l’interruzione confondono il messaggio; non è necessario, infatti, ricorrere all’atonalità perché la melodia classica subisca una dissoluzione costante. La sua cancellazione, come quella dell’ordine tonale, si osserva sin dalla fine del XIX secolo con Liszt, poi Debussy all’epoca di Pelleas e Melisanda. (5) Ricordiamo la sua affermazione: “la melodia è anti-lirica”.

Quanto a Ravel, si è avvicinato all’atonalità dopo aver ascoltato Le pierrot lunaire (6) di Schönberg nel 1913. Ha scritto, come un’eco, i suoi Tre poemi di Mallarmé senza superare la sbarra costituita dalla sopravvivenza della melodia.

Jankélévitch, tuttavia, sempre sensibile all’ineffabile, al “mistero dell’istante” (7), mette comunque sullo stesso piano l’impressionismo e le musiche rumorose e aggressive di Bartók e Stravinsky. Le considera come una musica all’aperto, agli antipodi del romanticismo tedesco così come Hegel lo aveva definito e cioè: “L’espressione musicale ha per contenuto l’interiorità stessa”. (8) Scriverà pagine acute sull’esprimibile e l’inesprimibile in musica, in particolare sulla volontà di non esprimere niente, che è “la grande civetteria del XX secolo”. Scrive: “Le meccaniche acide di Satie, gli organetti di Séverac, gli automi e gli orologi di Ravel, le marionette di Stravinsky e di Falla, i rumori delle macchine in Prokofiev, rivelano una stessa fobia dell’esaltazione lirica o dello slancio patetico”. (9) Nel rifiuto del pittoresco, quindi, contrariamente a Rivière, Jankélévitch trova un punto comune con Debussy, Stravinsky o Bartók: il rifiuto del pathos, della grandiloquenza, dell’ampollosità. Stravinsky procede a questa dissoluzione, con la sua poliritmia e la sua politonalità, in accordo con l’esotismo, i ritmi barbari, il jazz, il giapponismo (Tre poemi della lirica giapponese). “Una musica che lascia parlare le cose stesse nella loro crudezza primaria” (10); essa non parla. Affine al fauvismo, è una musica rumorosa e aggressiva, del circo e della fiera come la Parata di Éric Satie, nel 1917, per i balletti russi e con gli scenari di Picasso.

Conosciamo la posizione a parte di Schönberg, che appartiene ancora al post-romanticismo sino al 1930. Certo è che l’abolizione della tonalità è il grande taglio che lui ha realizzato nel XX secolo. Tuttavia, possiamo notare, come fa Boulez, che “a mano a mano che Schönberg precisa le sue vedute teoriche, utilizza sempre più delle forme note (…) proprie dell’epoca classica viennese”. (11) Su altri punti Boulez ha relativizzato la sovversione rappresentata da Schönberg sottolineando che il suo iper-cromatismo è in relazione con “il temperamento drammatico ed espressionista” del compositore, al punto che “le dissonanze” che colpirono così tanto i suoi contemporanei “si integrano perfettamente in un contesto intellettuale e letterario che ne rende conto pienamente”. (12) Ciò non toglie che “l’universo in espansione” di cui è il creatore aprirà la via a tutte le sperimentazioni musicali della fine del XX secolo.

In musica, l’affrancamento dalla rappresentazione, già sottolineato da Schopenhauer, l’allontana sempre di più dai modelli discorsivi e narrativi. La musica non è descrittiva e non rappresenta nessun oggetto. La rivoluzione del XX secolo, che comincia con Webern, è quella dell’affrancamento dall’armonia e dalla tonalità. La faglia così aperta, sino al serialismo integrale che include ritmo e suono, ha disorientato un pubblico alla ricerca di senso e di stati d’animo. I musicisti della seconda generazione – quella degli anni ‘20 – sono stati nutriti dalla dodecafonia. La maggior parte si è affrancata da questa tutela, spesso assimilata a una gogna, a una dittatura. Lo stesso Boulez, con Le marteau sans maitre, (13) ne ha mostrato i limiti. I più recalcitranti hanno allora ristabilito la tonalità e dei ritmi semplici, il che, negli Stati Uniti, ha prodotto la musica minimalista e ripetitiva, per la tranquillità e il comfort ritrovati da un pubblico che la musica moderna non aveva mai toccato. A questa tendenza regressiva si sono opposti dei musicisti la cui creazione non rinnega l’eredità di Schönberg e che hanno assorbito musiche esotiche, in particolare asiatiche, nere, come pure il jazz. Un melting pot che trionferà negli anni ’70 come una forma di globalizzazione e in un labirinto di tendenze estetiche.

Dopo la guerra, negli anni ’50, la musica colta appare come sincrona con lo sconvolgimento sociale, culturale e tecnologico che si augurava Varèse. L’avanguardia europea è così costituita dagli allievi di Olivier Messiaen, Boulez, Xenakis, Berio, Stockhausen. A Colonia Boulez incontra Ligeti.

La musica contemporanea – quella degli anni ’50 – è il sintomo di uno sconvolgimento sociale, politico e culturale senza precedenti; anticipato prima della guerra, esso scoppia negli anni ’45. Tre fattori essenziali sono da notare: il serialismo integrale che prolunga la dodecafonia di Schönberg, con Boulez, Stock, Luigi Nono. Secondo: la rivoluzione tecnologica con la musica elettroacustica e il sonoro, oltre al sintetizzatore. È l’avvento di una musica senza note, senza altezze, con una ricerca di timbri e masse indipendente dall’orchestra classica: la musica concreta ne fa parte. Da ultimo, il disco e la diffusione planetaria dei mezzi di comunicazione di massa.

Stockhausen per primo teorizza l’idea secondo cui si possono ormai comporre dei timbri come si componevano accordi. L’organizzazione autonoma e riflessa del timbro, da Debussy alla musica spettrale, traccia una via che conduce all’esplosione della musica colta. La possibilità le è stata offerta da Schönberg, con la sua tecnica della Klangfarbenmelodie (la melodia di timbro), che apre la via al dominio del timbro su tutti i parametri della musica, in particolare le altezze e le durate. Ne deriva una dissoluzione dell’oggetto sonoro che impedisce di distinguere l’armonia e il timbro a favore di oggetti ibridi, di livello o di trasformazione continua. (14)

Ancor prima dell’uso misto dell’elettroacustica e dell’orchestra, Penderecki, iniziatore del “sonorismo” con Trenodia per le vittime di Hiroshima (1960), (15) produce con solo strumenti ad arco dei suoni sino ad allora inudibili: glissando, rumori stridenti, sopracuti, dissonanze, accordi a grappoli in cui scompaiono altezze e intervalli; tenuto conto del titolo, l’angoscia è assicurata.

Con Stockhausen, un’opera come Momente (1962) (16) realizza il missaggio dell’orchestra con voci di soprano e percussioni, in cui si giustappongono tutti i collage possibili; confusione di rumori e scoppi di voci, di onomatopee, di parole straniere, di risate e di scocchi di lingua, di pezzi di poemi di William Blake e del Cantico dei cantici. È una sorta di associazione libera; questa è l’analogia che si impone con la psicoanalisi: equivalente all’aleatorio nella composizione senza che nessuna giustificazione matematica, come in Xenakis, abbia a giustificarlo. Bisogna vedere (su Youtube) Stockhausen dirigere quel vortice sonoro con una passione, una verve irresistibile, una presenza che da sola permette – aggrappandosi a uno sguardo – di non sprofondare nel maelström di una musica piena di rumore e di furore, signifying nothing.

È il dadaismo in musica. La musica, come qualsiasi creazione del XX secolo, consacra l’oggettività delle cose, la loro supremazia sulla soggettività dell’artista, è l’effetto Joyce; la lingua che parla da sola.

Boulez invocava il parallelismo con Joyce per riassumere l’avanguardismo musicale. In una lettera a John Cage scrive: “Ci resta da raggiungere il vero «delirio» sonoro e da fare sui suoni un’esperienza corrispondente a quella di Joyce sulle parole”. (17) Ciò significa che era solo abbozzata con Schönberg. Benché agli antipodi l’uno dell’altro, Cage e Boulez hanno aperto l’avanguardia ad altre musiche, in particolare asiatiche, come il gamelan indonesiano, che diffondono la scrittura per piano e il trattamento delle percussioni.

Sono così annunciati due assi della creazione, che trasformeranno il linguaggio musicale della seconda metà del XX secolo. In primo luogo, il serialismo integrale; esso prende come punto di partenza Webern piuttosto che Schönberg, di cui rifiuta la continuità con il romanticismo tedesco e l’espressionismo degli anni ’30. Il serialismo integrerà ritmi e timbri nella serie. In secondo luogo, con Cage, il rifiuto della nota e delle altezze sfocerà in una cultura del suono per se stesso, nella consacrazione della pura materia sonora.

 

Dal sedicente linguaggio musicale alla musica delle cose

I post-seriali, Cage, Xenakis, Ligeti, metteranno in discussione, al seguito di Varèse, la scrittura musicale stessa e tutti i parametri che si credeva fossero invarianti della scrittura: le durate, l’intensità, le altezze, i timbri. La stessa sopravvivenza delle note appare contingente. È l’epoca in cui i problemi di timbro, di sonorità, prendono il sopravvento sulla scrittura musicale. L’emergere della musica concreta mette in discussione l’opposizione fra suono e rumore. Il nastro magnetico introduce effetti sonori inauditi, un brusio opaco mescolato eventualmente all’orchestra classica. Come capita alla verità in psicoanalisi, anche la stessa musica ormai “passa (…) attraverso le cose”. (18)

Più vicini a noi, i rumori della città costituiscono il vocabolario di Varèse. Un giornalista gli chiede se oggi esiste un senso della natura. Varèse risponde che vive nei rumori della civiltà. Dicevamo che il XX secolo era la musica delle cose; le sirene della polizia newyorkese costituiscono l’ambiente naturale dei bambini che non hanno mai visto un ruscello né sentito il canto degli uccelli. (19) Varèse, d’altro canto, ha orrore della natura nel senso romantico del termine e fa dei rumori della città il suo ambiente naturale. Non basta annotare scrupolosamente il canto degli uccelli come fa Olivier Messiaen per essere più vicini alla natura. Anche Mozart ha i suoi uccelli; (20) Schumann ha il suo uccello profeta, Stravinsky ha il suo Usignolo e il suo Uccello di fuoco. Che rapporto c’è tra Gli uccelli di Clément Janequin e quelli de Il bambino e i sortilegi di Ravel? La metafora degli uccelli autorizza tutti gli stili. Il titolo, di fatto, non si riferisce a nessuna realtà.

In queste condizioni, le polemiche relative ai rapporti della musica con il linguaggio, il senso, l’espressione, veicolano sempre l’ideologia letteraria e la prossimità della musica con la poesia. Il linguista Jakobson ha mostrato quanto poco fosse rigorosa questa analogia considerando che se, al limite, si possono trovare elementi discreti e ripetitivi nella scrittura musicale analoghi ai fonemi, la composizione dei suoni non genera nessun vocabolario. Come scrive Jakobson nei suoi Saggi di linguistica generale: è “un linguaggio che si significa da sé”. Analogamente per Schönberg: “la musica parla nella sua propria lingua di materie puramente musicali”. (21)

La cosiddetta musica delle parole non ha nulla a che vedere con la messa in musica di un poema. È il caso del Socrate di Satie, in cui la musica non ha nessun rapporto con il racconto: una dissociazione voluta, rafforzata da espressioni assurde nei titoli dati da Satie ad alcune Gnossiennes, come, ad esempio: “Dal pezzo del pensiero”, “Lucentissimo”, ecc.. che sottolineano con ironia l’abisso esistente tra le note e una significazione.

Elettra di André Gide, messa in musica da Stravinsky, susciterà l’incomprensione dell’autore che pensava che l’articolazione delle parole sarebbe stata sottolineata dalla musica, mentre quello che si sente è tutt’altra cosa. Il modello linguistico è poco appropriato per l’analisi della scrittura musicale, soprattutto quando si tratta della musica contemporanea. Gli effetti di significazione, che una musica come quella di Varèse può suscitare (Déserts, Ionisation), non hanno nulla a che vedere con una dualità del tipo significante/significato o anche codice/messaggio. Questo non significa, come pensa invece Lévi-Strauss, che la musica dodecafonica esegua una sola articolazione. (22)

Lévi-Strauss, in effetti, ha tentato di tracciare il limite tra musica possibile e musica impossibile facendo riferimento alla doppia articolazione del linguista Martinet. Dopo aver sostenuto il postulato di un’omologia delle arti con una lingua, Lévi-Strauss ritiene che perlomeno due pratiche artistiche facciano a meno del primo livello di articolazione: è il caso della pittura astratta e della musica dodecafonica. “L’utopia del secolo (…) è di costruire un sistema di segni su un solo livello di articolazione”. (23) Ne deduce, quindi, un deficit di senso della pittura ridotta a una decorazione; ne distingue la musica che, invece, se ha la struttura di un mito, diventa una sincronia senza diacronia, un messaggio senza codice. Ci ritroviamo, però, di fronte a questo paradosso: la musica seriale, di fatto, aderisce al discorso, si fa serva delle parole; in mancanza di melodia si constata “un rinforzo espressivo del linguaggio articolato” in Schönberg, (24) da cui deriva lo Sprechgesang.

Possiamo, invece, affermare con Boulez che “la musica è un arte non significante: da cui l’importanza primordiale delle strutture propriamente linguistiche”. (25) Questo significa che il dualismo significante/significato non è operativo, il che non impedisce, com’egli dice a proposito della sua opera Pli selon pli, (26) la ricerca di omologie strutturali tra i principi logici sui quali si fonda la creazione: “Non partiamo dalle «sostanze e dagli incidenti» della musica, ma pensiamola in termini di relazioni, di funzioni”. (27) Di nuovo un paradosso: è da Lévi-Strauss che Boulez prende questa affermazione, come pure l’assenza di opposizione tra forma e contenuto. Altre invarianti delle mitologiche di Lévi-Strauss vengono utilizzate, come la trasformazione o l’inversione. Analogamente, il binario attacco/risonanza viene a prendere il posto dell’opposizione tensione/distensione caratteristica dell’armonia classica. Così la messa in musica di Mallarmé in Pli selon pli non sta nell’ornamentazione di un poema ma considera il poema stesso come “centro e assenza del corpo sonoro”.

Sottoscriviamo le dichiarazioni di Xenakis su questo punto: “la musica non è una lingua”. (28) Sino ad allora, si prendeva per oro colato il fatto che la musica adottasse la struttura del linguaggio: “le note – l’equivalente dei fonemi – in un assemblaggio sempre più vasto: motivi, frasi, periodi, sezioni, parti e, per finire, opere intere… Così la musica assomiglia a un discorso: grazie a quegli elementi isolati e alle strutture dinamiche significanti, essa divenne narrazione, suggestione, evocazione”. (29) Non solo il fatto di ricorrere al continuo, contro il ritaglio discreto del significante, invalida questo modello ma soprattutto i problemi di timbro, di sonorità e di risonanza vanno a mobilitare degli strumenti matematici estranei al puntillismo delle note e delle altezze.

Con Varèse, possiamo tracciare il taglio tra una musica che presuppone il linguaggio, la declamazione, la retorica, “una musica del discorso” e, peraltro, una musica del timbro e del suono affrancata da ogni convenzione della scrittura orchestrale.

Un sostenitore della musica spettrale, Gérard Grisey, esprime così questo dualismo: “La prima è la musica che presuppone la declamazione, la retorica, il linguaggio. Una musica del discorso. Berio e Boulez sono in questa categoria – come pure Schönberg e Berg hanno una maniera di dire le cose con dei suoni. La seconda è la musica che è più uno stato del suono che un discorso”. (30) Appartengono a quest’ultima categoria Xenakis e Stockhausen (che prende dalle due correnti) e, negli anni ’80, il movimento spettrale che segue l’esempio dell’inclassificabile Scelsi.

 

Topologia dello spazio-suono

Secondo Xenakis, “la musica del nostro tempo è una musica dello spazio”. (31) Sostituire una “statica spaziale” (Ligeti) al trattamento della durata in cui, come dice Pierre Henri, “far aumentare il suono” sarà il fantasma comune ai compositori post-seriali, come pure ai più recenti della musica estasiante. Tutti procedono all’“ingrandimento quasi allucinatorio dei dettagli” che caratterizza l’arte del XX secolo secondo Francastel. (32) Spesso si cita la pittura astratta, nata non da uno stile proprio ma da un semplice effetto zoom su dei dettagli dei grandi autori (Velasquez) che assume la misura del quadro stesso.

L’osservazione microscopica del suono da parte dell’industria elettroacustica è stata in grado non solo di riprodurre i suoni, ma gli ultrasuoni, i micro-suoni, la decomposizione del suono con la potenza di un microscopio elettronico. Le proprietà topologiche del suono, considerate come deformazioni di superfici, sono offerte da tutte le manomissioni del sonoro. Gli effetti zoom, prodotti al tempo stesso delle anamorfosi, inspirano a Boulez l’intuizione di una composizione di caucciù (33) che, per noi, non può non evocare la logica in caucciù del piccolo Hans. (34)

La rivoluzione musicale del XX secolo concerne il suono, la sua decomposizione, la sua ri-creazione in laboratorio. La sintesi del suono realizzata negli anni ’50 sfocia in una vera e propria composizione del timbro a partire da una sovrapposizione di onde sinusoidali. La decomposizione spettrale del suono da parte della musica concreta, la sua sintesi elettronica al computer, è riuscita a rendere autonomo il suono come un’entità distinta dalla scrittura musicale. Con il computer molti musicisti ritengono che la composizione sia obsoleta e che è la natura stessa dei fenomeni sonori quello che essi scoprono.

La nozione di spazio musicale è sempre stata metaforica. Si fonda sulla rappresentazione simbolica offerta dalla notazione musicale: riga, figura, curva melodica; il campo delle altezze è diventato uno spazio organizzato dal basso verso l’alto. Jankelevitch ha fatto notare che la terminologia spaziale in musica rinvia al primato della vista sull’udito. Tuttavia, Solomos fa osservare che “non si può più rinviare i caratteri spaziali a pure metafore”. (35)

“L’arte dei suoni si è sempre più composta, intesa, pensata rispetto alla nozione di spazio”. La sensazione dello spazio è ricercata più di qualsiasi altra emozione. I pionieri come Xenakis, in collaborazione con ingegneri ed architetti, in particolare Le Corbusier, hanno moltiplicato le esperienze acustiche, aprendo la via a una spazializzazione intesa come suddivisione degli oggetti nello spazio per la proiezione del suono. Tra le grandi innovazioni relative ai laboratori di elettroacustica citiamo il GRM creato da Schaeffer nel 1958, dopo il WDR (WestdeutscherRundfunk) di Colonia del 1951, e lo Studio di Fonologia di Milano del 1960, creato da Berio e Maderna, a cui si aggiunse Luigi Nono.

Il mito della “musica spaziale” degli anni ‘60/’70 s’illustra con Atmosfera (36) di Ligeti (1961), primo esempio di musica statica senza inizio né fine. Nel 1975, Sirius (37) di Stockhausen mischia l’elettronica al viaggio spaziale, poi in Octofonia (1990) e Weltraum (1994) paragona ormai le note alle stelle e s’inabissa nella cosmologia.

Prendendo alla lettera l’intuizione di Scelsi, per il quale “il suono è sferico”, Stockhausen proclama una terza dimensione del suono facendo costruire ad Osaka, nel 1970, una sfera in cui il pubblico è circondato da altoparlanti; intuizione che svilupperanno in laboratorio gli iniziatori della musica spettrale, in particolare Murail con la sua “banda critica”. (38)

Si tratta di una musica da extraterrestre affrancata dal ritmo binario, che provoca la sensazione di spostamento, di delocalizzazione, di uno strappo dal corpo ad opera del suono che perde i suoi riferimenti spazio-temporali, vertigine dell’angoscia, che costituisce tutto un capitolo dell’estetica musicale del nostro tempo.

Alla fine degli anni ’60, parallelamente alla musica colta, è sorto lo space rock (rock estasiante), che sviluppa atmosfere eteree con accordi tenui, motivi ripetitivi, utilizzo di sintetizzatori, di riverberi e di echi “che contribuiscono a generare la sensazione di spazio nel senso di spazio intersiderale”. (39) Pensiamo a titoli significativi quali: Astronomy Domine, Interstellar Overdrive (40) dei Pink Floyd nel 1967 e tutta la corrente psichedelica.

Il cinema ha saputo sfruttare questa possibilità di strappare lo spettatore al tempo, come ha fatto Kubrick con la musica di Ligeti in 2001: Odissea nello spazio. I politopi di Xenakis degli anni ’70, diffusi ad altissimo volume, “viaggiano attorno allo spettatore; il suono lo circonda da ogni parte e lo prende quasi di pancia”, (41) sottolinea Solomos. Si ha l’immersione del soggetto nello spazio-suono, con un’apertura verso il misticismo, come in Stockhausen, che penetra l’interno del suono.

D’altro canto, l’argomento è stato utilizzato in favore della musica contemporanea, che deve al cinema una certa diffusione, in particolare con il cinema di fantascienza (si veda la musica di Blade Runner) (42). Altri incontri con la musica contemporanea hanno avuto luogo, in particolare il jazz con Miles Davis, Franck Zappa, il free jazz.

 

Al di là del bello?

Il bello è sempre l’ideale della creazione? Superare i limiti del bello potrebbe essere il sintomo dell’arte contemporanea, come ha mostrato Marie-Hélène Brousse. (43) Potremmo tracciare una frontiera tra l’arte che protegge l’immagine fallica e idealizza il corpo, e l'attraversamento di tale fantasma attraverso la pittura del XX secolo. Il dopo-Picasso ha confermato tale sovversione con Bacon o, per esempio, de Kooning e la sua serie di Women. Se nell’arte, sino ad oggi, Lacan assegna alla bellezza la funzione di “estrema barriera nel proibire l’accesso ad un orrore fondamentale” (44), il velo è strappato; l'oggetto ora sarebbe denudato, liberato da ogni involucro ideale, sarebbe uno scarto.

Vero è che questa dominazione dell’oggetto-scarto reale nella pittura contemporanea dà luogo a una confusione in cui la creazione non obbedisce a nessuna regola estetica e si regola solo sulle leggi del mercato, l’opera d’arte essendo ridotta a una merce. Tale derisione, in effetti, è manifesta nell’arte pop degli anni ‘60/’70, con Andy Warhol e ancora di più nella nostra epoca in Damien Hirst e Jeff Koons. Che partito prendere su questo paradigma delle arti plastiche? La musica contemporanea è illuminata da questo paragone?

Boulez fa notare che la pittura contemporanea ha sempre il successo assicurato; il pubblico corre alle mostre di Rothko e di Andy Warhol come pure a quelle di Basquiat. Negli Stati Uniti la corrente derivante da Pollock e dall’espressionismo astratto ha conquistato un pubblico; l’arte astratta ha ottenuto un trionfo negli anni ’50-’60, circa all’epoca del serialismo integrale; allora, perché non la musica?

Un compositore quale Morton Feldman illustra abbastanza questa tendenza dei compositori newyorchesi degli anni ’80 ad appoggiarsi sulla pittura. Tale compositore, nato nel 1926, ha conosciuto tutti i geni del XX secolo: Schönberg, Varèse, Stravinsky, Boulez. Si è lasciato influenzare dai minimalisti americani. Trova un supporto immaginario alla sua opera nella pittura astratta americana degli anni ’60, in Rothko e Gustson. Egli stesso pittore, Feldman ha trovato nell’arte della tessitura tradizionale turca la via regia che il lavoro del suono deve riprodurre. Questa analogia della tessitura e della scrittura musicale fa eco, per noi, con il reale del nodo borromeo e con l’utilizzo della treccia dell’ultimo Lacan, ispiratagli dal pittore Rouan. La musica trae dalla pittura e dalla topologia le stesse metafore di Lacan: deformazioni di superfici, anamorfosi, sfere, tessiture.

Si paragonava già, a torto, Debussy agli impressionisti. Schönberg, dal canto suo, rivendica delle affinità con Kandinsky, il serialismo in genere viene associato al puntinismo. Boulez confessa una parentela con Klee. L’astrattismo come la Bad Painting hanno il loro pendant musicale. Il suono sporco di Romitelli (45) trova la sua fonte nella pittura di Bacon.

Pensiamo anche ai monocromi di Yves Klein, che non scioccano più di quello che non dovrebbe fare il lavoro del suono ridotto a una sola nota. È il tentativo di Scelsi, (46) sorta di anamorfosi eternamente stirata, che sospende la durata. Le musiche ripetitive, fondate su cicli e cerchi concentrici, non sfuggono all’immaginario della Pop Art. Apprendiamo che è soprattutto Andy Warhol che ne costituisce la fonte principale, come le minuscole varianti di una stessa immagine. (47)

Si pongono, quindi, due problemi: la musica contemporanea necessita delle stesse analisi riguardanti l’oggetto plastico? D’altro canto, in Lacan non c’è forse un’estetica al di là del bello, della bella forma e del fallo, di cui una nuova fonte sarebbe la teoria del sublime kantiano appena abbozzata nel Seminario sull’Etica? In queste condizioni, l’ideale della bella forma non sarebbe più necessariamente richiesto per qualificare l’oggetto estetico. Una via verso l’illimitato, l’informe, il difforme si apre in questa categoria del sublime, senza che la si confonda con la sublimazione. Essa supera l’alternativa bellezza ideale o oggetto a scarto.

Certo è che la questione dello scarto si pone in modo esplicito nella musica contemporanea. Congiuntamente con il rifiuto fondamentale dei canoni del romanticismo e della tonalità, le finalità della musica sono profondamente cambiate: ipnotizzare, aggredire, stordire, piuttosto che affascinare. Il regno del bel canto, che attraversa ancora tutta la musica del XIX secolo, è abolito, da Debussy in poi. La voce è trattata come uno strumento tra gli altri, come il piano è diventato, con Igor Stravinsky, uno strumento a percussione. Sia il grido che la voce rauca degli jazzmen come tutti i suoni gutturali prendono posto nell’orchestra: urla, respiro e voce cavernosa si mischiano agli strumenti a fiato; John Cage fa parlare il corpo. Lo stesso vale per gli strumenti: tutto quello che era impossibile sentire in musica, in particolare il rumore, a lungo confuso con l’opposto della musica, ormai è integrato in essa, con la musica concreta di Schaeffer e Pierre Henri.

È chiaro che due orchestre accordate a un quarto di tono di differenza, come in un’opera di Ligeti, oppure il suo scherzo per cento metronomi di cui nessuno batte allo stesso ritmo o due giradischi che vanno insieme a due velocità diverse non fanno di certo versare lacrime. Non è solo rompere con le abitudini di ascolto, è reintrodurre nella musica quello che essa stessa ha espulso per costituirsi. È il ritorno del rimosso musicale, tenuto al guinzaglio da secoli: il rumore, lo stridio, il respiro, il grido, la dissonanza per se stessa, la nota stonata, ecc.. Un musicista d’avanguardia, Romitelli, scrive: “Il suono nella musica contemporanea è «castrato» dal formalismo e dai dogmi sulla purezza del materiale musicale: un suono cerebrale, senza corpo, senza carne né sangue. Io amo il suono sporco, distorto, violento, visionario, che le musiche popolari talvolta sono riuscite ad esprimere”. (48) L’autore fa riferimento al rock psichedelico degli anni ’60, quello di Jimi Hendrix, dei Pink Floyd, dell’underground dell’epoca. In seguito, il suo ciclo Professor bad trip (1998-2000) (49) illustra l’idea di risonanza composta, scritta dopo la sua esperienza con le droghe e gli allucinogeni. (50) Più vicina a noi, la musica dal suono saturo di Franck Bedrossian si oppone a qualsiasi ideale di purezza e rivendica i limiti dell’udibile.

Tale cacofonia rivendicata, che resta sullo stomaco dell’ordine simbolico classico, resta al di qua di qualsiasi ideale estetico. Respinge più in là possibile i limiti dell’inudibile per deludere ogni tentativo di ricercare un messaggio. La consideriamo un’esperienza limite giacché nessun compositore vede la propria opera ridotta a tali estremi sperimentali, che molto spesso costituiscono solo una provocazione provvisoria, smentita da un’opera più civilizzata.

Pur tuttavia, su un altro versante, la rivoluzione tecnologica e sonora ha favorito le tendenze mistiche dei grandi compositori. Nel suo capitolo sull’immersione nel suono, Makis Solomos mostra la coincidenza tra lo spazio sonoro, che tale tecnologia ha reso possibile, e una rinascita del sentimento oceanico; un sintagma freudiano inatteso, benvenuto in questo campo. I compositori fanno appello al cosmo, agli spazi infiniti per produrre sul pubblico un effetto di trance e di delocalizzazione. Come abbiamo detto sopra, la spazializzazione del suono ha favorito una dissoluzione della durata a favore di un tempo sospeso. Analogamente, la suggestione di spazi eterei o intersiderali si è realizzata al contempo nella musica pop e nella musica colta. Ovviamente, non confonderemo il cocktail psichedelico offerto dalla musica pop con lo strappo tramite il continuum sonoro realizzato da un Xenakis con i suoi Polytopes o Metastasis. Lontano dal pitagorismo di quest’ultimo, Messiaen rivendicava un’elevata spiritualità nel suo Quartetto per la fine del Tempo come pure nelle sue diverse opere consacrate al Gesù bambino.

Da ultimo, alcune filosofie talvolta fumose attorno allo Zen, nel 1970, allontanano sempre più i compositori dall’ideologia consumistica. L’influenza delle arti indù e orientali viene a sostenere il “misticismo ieratico” che caratterizza il minimalismo di un La Monte Young, ispirato dalle tradizioni indiane.

Non si scrive più dal grave verso l’acuto, ma a partire da un centro spesso virtuale si sviluppa una “onnidirezionalità” armonica che va di pari passo con un una musica “fluttuante” (51) più o meno ipnotica e che avviluppa l’uditore. L’effetto di “trance” (52) è così nel programma delle musiche minimaliste e ripetitive, alcune delle quali rivendicano la tradizione dei dervisci rotanti (Terry Riley).

Non li si possono confondere con i fautori della musica spettrale come Tristan Murail. Quest’ultimo, che deve molto a Giacinto Scelsi, non fa nessuna concessione al romanticismo o alla bellezza classica, pur rivendicando una mistica del suono. Vero è che l’emergere del suono alla fine del XX secolo è stato ipostatizzato così tanto che “l’immersione nel suono può assumere allora l’aspetto della famosa fusione oceanica o di una fusione di natura mistica”. (53) Il compositore Michel Chion ha dato una calmata a queste tendenze facendo osservare che “il suono è sotto molti punti di vista miticizzato come il rappresentante di un’altra realtà vibratoria molto più elevata, di una musica senza suono al di là dei suoni, di una voce senza voce al di là delle voci”. (54) Quindi, è a partire da una non-estrazione dell’oggetto-voce che si è forgiato questo mito esoterico della vibrazione. Così penseremo alla voce – come la intendeva Lacan – come voce afona; l’effetto di estraneità ch’essa produce, in generale, nella musica contemporanea qui viene sfumato, poiché nulla resta estraneo al suono.

Tutta una ideologia della vibrazione si presta alle metafore spiritualiste. Ha conquistato gli anni pop e anche quelli successivi. È già presente nella teosofia di Skrjabin, per il quale la sostanza degli stati d’animo è la vibrazione. (55) Il suono deve avviluppare l’uditore, spingendolo verso la fusione e il mito dell’Uno. È opportuno ricercare quello che, nella musica contemporanea, vuole produrre una trance al di là dell’oggetto in una lontananza indefinita, ben lungi dall’oggetto a scarto, anche se tutto l’arsenale tecnologico di oggi vi contribuisce.

Misticismi, filosofie orientali negli uni, delirio psicotico negli altri, dadaismo (Cage), non fanno che allontanare la musica da tutti coloro che vengono definiti dagli oggetti di consumo.

Non le si confonderà, quindi, con quelle musiche d’arredamento, melense e rosa confetto, diluite in ninnananne dalle armonie sdolcinate, musiche d’ascensore dei grandi magazzini e degli aeroporti. Perché la musica?, chiede ingenuamente il filosofo Wolff. (56) La domanda corretta è piuttosto: perché la Sequenza per violino di Berio e non André Rieu?

Questo condanna forse la musica del nostro tempo – una musica del reale senza concessioni per gli edulcoranti che sono, invece, l’armonia, il ritmo, il bel suono? Si pone, quindi, una questione: perché una simile sovversione, contrariamente ad altre rivoluzioni artistiche, in particolare in pittura, non ha avuto presa sulla nostra epoca? Al di là dei fattori contingenti (politica di diffusione, concerti, interpreti), ci chiediamo se esista una sensibilità alla musica post-seriale, che ne è, oggi, di una resistenza alla musica del nostro tempo? Si tratta forse del rovesciamento di un codice simbolico che traccia un limite tra quello che è udibile e quello che non lo è? L’armonia? L’atonalità? Le note? Il canto? Questi parametri sono universali al punto che, una volta trasgrediti, saremmo nella pura e semplice cacofonia? Una simile opinione pubblica fa ritorno oggi. Su tutte queste questioni, lo scritto polemico di Duteurtre (57) contiene la somma di tutti i pregiudizi ostili alla musica d’avanguardia derivata dall’atonalità. I luoghi comuni su quest’ultima puzzano di populismo: un’élite rumorosa, arrogante e pretenziosa che è sopravvissuta solo grazie allo snobismo parigino, alla dittatura di Pierre Boulez e alle sovvenzioni statali di Pompidou degli anni ’70. Il libro ha suscitato una protesta, in reazione alla malafede di tale sordità, raddoppiata dal fatto che l’autore considera come una salubre interruzione della corrente post-seriale il ritorno all’armonia nelle musiche ripetitive e minimaliste, pallidi discendenti della musica pop e del rock americano che si fondano su tre accordi e una pulsazione automatica. Sembra che alcuni oggi gli facciano eco al Collège de France. Pascal Dusapin, che è insorto contro questa posizione, non ha tuttavia nulla del dogmatico; eclettico, si è mostrato in grado di rinnovare tutti i generi, dalla sonata all’opera.

 

Eco nel corpo: pulsione o pulsazione?

 

È forse per mezzo del corpo che la psicoanalisi avrebbe qualcosa di nuovo da dire sulla musica, in particolare sulla musica contemporanea? Diverse piste ci vengono proposte.

Francis Wolff ha studiato le invarianti costitutive della musica, di tutte le musiche, che si tratti della canzonetta, della poliritmia dei pigmei, di Mozart o di Stravinsky; vale a dire, principalmente, la pulsazione, la misura e il ritmo. Tali invarianti hanno almeno una base biologica: la pulsazione isocrona “che viene dal nostro corpo o dall’esigenza di regolarità che lo anima: battiti cardiaci, respirazione, camminata, ecc.”. (58) A questa pulsazione regolare si aggiunge la misura che presuppone non solo uguali durate, ma una divisione accentuata di queste ultime. Quanto al ritmo, esso concerne il fraseggio proprio dell’artista, l’alternanza regolare degli accenti con la mano sinistra al piano, per esempio, come nei valzer di Chopin. Il che fa dire all’autore che “la misura è in noi” mentre il ritmo, invece, è “nel discorso musicale”. (59) L’autore sostiene una sorta d’inconscio corporeo che chiama “corpo contante”, che è definito come un’eco, un’incorporazione del ritmo. (60) Tale postulato gli servirà per giustificare l’esclusione di qualsiasi musica che venga, da vicino o da lontano, dal serialismo.

Da questo naturalismo risulta una discriminazione di cui fanno le spese le musiche senza ritmo né ripetizione, in quanto proibiscono qualsiasi prevedibilità e qualsiasi ordine. Una concezione che non è nuova e che condanna implicitamente tutta la musica seriale, in nome di una sedicente contraddizione tra cromatismo e abbandono della tonalità. (61) L’autore non esclude comunque dalla musica eventi più o meno aleatori e irregolari quali il Recitativo delle opere italiane di Mozart o le ouverture dei Raga di Ravi Shankar. Per lo stesso motivo, l’autore non apprezza particolarmente il canto gregoriano con la sua “alternanza musicalmente imprevedibile di brevi e di lunghe” fondata sull’accentuazione naturale della lingua latina e non sulla ripetizione di una stessa cellula: “Invece di una ripetizione, si sente sempre la stessa cosa. Questo tipo di musica non può farci nulla, non può avere nessun effetto motorio sul corpo. Una temporalità continua e senza misura non può avere che un effetto ipnotico o contemplativo”. (62) Detto questo, tutta la musica spettrale è condannata. Ne deriva che, senza la pulsazione isocrona, la musica è caotica, può essere salvata solo dalla parola. Platonico, l’autore presuppone una presenza dell’intelligibile nel sensibile, un calcolo inconscio come diceva Leibniz, che causa il piacere musicale e che, ovviamente, esclude la sovversione contemporanea di quanti, come Cage o Xenakis, hanno tentato di abolire le altezze, gli intervalli e la misura.

Ostile al formalismo e allo strutturalismo, Francis Wolff fa riferimento alla Gestalt theory per esplicitare la sua nozione di pulsazione in quanto “forma che si ripete”. (63)

Già Varèse faceva appello a quello che, nel corpo, fa eco alla pulsazione ritmica, alla vibrazione, ecc.. ma senza cedere né al misticismo né al naturalismo biologico. Lo stesso vale per Stockhausen che, in Kontakte (1958-1960), (64) fa notare che “c’è una vibrazione sonora che è nel corpo stesso, all’interno del corpo” (65), senza che si tratti in particolare del corpo biologico.

L’affermazione secondo cui il corpo fa da cassa di risonanza per simpatia con un ritmo rispettoso di quello che Wolff chiama l’“isocronia” (66) è un puro fantasma. Si urta contro il fatto che la sedicente pulsazione non si fonda su nessun ritmo naturale; del resto, per fortuna, l’autore ignora la psicoanalisi. Non è questo il caso di J.-F. Lyotard che, nel suo articolo “Diversi silenzi” (67), ritiene di poter isolare, al di là dei codici simbolici della tonalità classica, una sedicente energia libidica alla fonte della creazione. Anche Lyotard ha cercato delle giustificazioni per la musica di Cage nell’elaborazione freudiana della pulsione di morte: silenzi, stridii, tensione superiore, depressione profonda. Cage crea degli events: dissonanza, stridore, silenzio esagerato, bruttezza. Per l’appunto, tutto quello che viene rifiutato dall’unità di un corpo armonioso. (68)

La pulsione, l’inconscio, la ripetizione sono operatori validi per l’estetica musicale? In genere, quando la psicoanalisi s’impiccia di musica, essa cerca un’analogia tra ritmica del corpo, pulsazione e ripetizione; è evidente che, nella danza, effettivamente, un certo godimento del corpo è provocato dalla scansione ritmica. Il problema è che la musica contemporanea non è adatta ai balletti; i tentativi di Pierre Henri con Béjart non hanno resistito a lungo. Si dovrebbero distinguere i balletti di Béjart dal tango. Lo spazio-suono rinnova il rapporto del corpo, meno assoggettato di quanto si crede al tratto unario della pulsazione o della ripetizione.

Noi seguiamo i suggerimenti proposti da Agnès Timmers, (69) che oppone due tipi di affetti: gli uni generati dalla musica romantica, gli altri dalla musica contemporanea. In quest’ultima, la soddisfazione apportata non rientra nell’emozione, che implica una famigliarità con il codice che presiede a tale musica. Sembra che la musica d’avanguardia sconvolga il rapporto con la soddisfazione musicale, nella misura in cui questa tocca fisicamente. Come pensare, quindi, un’esperienza del corpo che non rientra nell’emozione, a cui si affeziona sempre una rappresentazione? I suoni saturi non fanno né piangere né sognare. È un dato di fatto che una musica che disturba, che risveglia, ha delle analogie con la pulsione: si producono oscuri eventi di corpo.

Alla concezione del corpo biologico come cassa da risonanza, ricettacolo ed eco, opporremo, quindi, un corpo erogeno definito dalla pulsione e l’oggetto a per accordarsi alle nuove musiche. C’è un topos relativo alle trasformazioni energetiche della musica contemporanea. È quello che Varèse chiamava la dinamica. L’aver abbandonato la metafora linguistica ha favorito le metafore energetiche, l’informale, il cosmo immateriale. È l’interpretazione che ne danno Deleuze e Guattari: “L’essenziale non è più nelle forme e nelle materie, né nei temi, ma nelle forze, nelle densità, nelle intensità”. (70) Gli stessi autori si riferiscono a Boulez per opporre continuità e discontinuità in musica, con il binario liscio e striato utilizzato in Pensare la musica oggi.

Si dice, allora, che la musica contemporanea, senza ritmica, senza pulsazione, non tocca il corpo. Ma di che corpo si parla? Il corpo che danza è sotto il dominio di una pulsione? Non è certo che tutto quello che fa godere il corpo sia d’ordine pulsionale. Le tendenze cosmiche della musica evocate sopra, d’altro canto, vogliono espellere il corpo per intero, come un grande otto infinito nello spazio.

Rimane da chiarire il legame tra pulsione e pulsazione. Se la psicoanalisi accosta il corpo tramite la pulsione, non lo fa per assegnarle un ritmo. Al contrario, ricorda Lacan dopo Freud, essa non ha “né giorno né notte”, è imprevedibile, senza legge, la sua spinta è costante. Lacan ha cercato, al di là della biologia, la ragione di tale paradosso nella topologia. (71) Gli avversari più decisi della musica atonale, seguendo l’esempio di Lévi-Strauss, ritengono anche “che l’armonia è indispensabile al nostro orecchio”, come lo sono le pulsazioni ritmiche percepibili dal corpo. (72)

Se la musica ha un rapporto con la pulsione, è piuttosto un “montaggio (in un collage) surrealista”, (73) un’accozzaglia. La porosità dei generi musicali è un’altra illustrazione di questi collage.

Se aggiungiamo il senso dell’umorismo e l’estrosità, abbiamo la musica di Frank Zappa, inclassificabile, che mescola tutto, da Varèse a Boulez, passando per il rock e il pop degli anni hippies, con un pizzico di critica politica; o anche Kagel, i provocatori e i dadaisti.

Al contrario, è proprio per contraddire l’aleatorio della pulsione che il corpo gode di un ritmo che esso controlla: la danza è una sublimazione della pulsione, un trionfo su di essa, l’illusione di una padronanza della pulsione. Per questo motivo, l’introduzione dell’aleatorio, della sorpresa e di altri fenomeni disturbanti nella musica post-seriale è più prossima al reale pulsionale del valzer in tre tempi. Cercare un’analogia tra pulsazione ritmica e pulsione corporea è un controsenso e un modo di giocare sulle parole. La pulsazione non è la pulsione, che designa un modo di godimento che non fa affidamento su nessuna cadenza ripetitiva.

Quale musica può fornire il paradigma di questa costanza pulsionale? Mozart o Stockhausen? La ripresa del tema nelle sonate di Mozart come pure i rombi aggressivi, le bombe e i tuoni di Stockhausen vanno comunque bene.

Si sa sentire? L’orecchio è forse affascinato solo dall’armonia? L’accordo perfetto, la risoluzione delle dissonanze? La dissonanza, i nodi, non è forse quello che l’inconscio ha in comune con la musica moderna: una smorfia del reale? E non è la sopravvivenza di canoni del XIX secolo che la rende inudibile oggi, quanto il reale impossibile da sopportare?

L’impossibile da sentire, certo, non è l’avvenire della musica ma un limite, sempre variabile, alla sua diffusione. La psicoanalisi, come pedagogia dell’ascolto, è sensibile al silenzio (Cage), al sospiro, al sussurro, ma anche alle stecche, all’impossibile da dire. La scansione della lingua dovrebbe favorire questo ascolto, invece di essere addormentata da una musica che ripete sempre la stessa cosa.

I lacaniani dovrebbero essere sensibili alla musica del nostro tempo. L’oggetto a in musica non è il reale nudo dell’inudibile, ma la stecca che disfa ogni significazione e ogni comfort armonioso: così come le applicazioni dell’elettroacustica, lo spazio-suono, la sfera, i nodi sono i paradigmi imprescindibili per pensare la musica oggi. Perché l’ascolto non deve essere colpito da quello che suscita scalpore nell’universo sonoro, come da ciò che rientra nella nostra esperienza? La lezione di Cage sull’ascolto fa eco alla lezione di Joyce sulla lettera. Perche le orecchie dello psicoanalista, come una principessa sul pisello, peraltro esercitate al peggio, dovrebbero essere escoriate dalla saturazione e dalla dissonanza?

  

          

Traduzione: Adele Succetti, 4 gennaio 2018.

 

  1. E. Varèse, Écrits, Paris, Christian Bourgois, 1983, p. 123.
  2. E. Varèse, Ionisation per 13 percussionisti fra cui 1 piano (1931). Interpreti: Ensemble intercontemporaneo, allieva del CNSMD, Susanna Mälkki, direzione (7’27) https://www.youtube.com/watch?v=wClwaBuFOJA
  3. J. Rivière, «Le Sacre du printemps», Nouvelle Revue Française, novembre 1913, p. 706-730. Fonte: http://sarma.be/docs/621
  4. I. Stravinsky, Le Sacre du printemps per orchestra (1911-1913). Interpreti: Chicago Symphony orchestra, Daniel Barenboim, direzione (34’52) https://www.youtube.com/watch?v=5Z8UmrrEx3c
  5. Cfr. C. Debussy, Il signor Croche antidilettante, ed. Studio Tesi, 1986.
  6. A. Schoenberg, Pierrot Lunaire per soprano e ensemble (1912). Interpreti: Anja Silja, soprano, Ensemble Intercontemporain, Pierre Boulez, direzione (40’50) https://www.youtube.com/watch?v=N-zW10__i4M
  7. V. Jankélévitch, Debussy et le mystère de l’instant, Paris, Plon, 1976.
  8. G.W.F. Hegel, Esthétique, « La peinture, la musique », Paris, Aubier-Montaigne, 1965, p. 182.
  9. V. Jankélévitch, La musique et l’ineffable, Paris, Seuil, 1983, pp. 55-56.
  10. Ivi, p. 44.
  11. P. Boulez , Relevés d’apprenti, Paris, Seuil, 1966, p. 358.
  12. Ivi, p. 353.
  13. P. Boulez, Le marteau sans maître, per voce d’alto e sei strumenti. Interpreti: Hilary Summers, mezzo-soprano, Ensemble intercontemporaine, P. Boulez, direzione (38’42) https://www.youtube.com/watch?v=MS82nF85_gA
  14. M. Solomos, De la musique au son, L’émergence du son dans la musique des XXe et XXIe siècles, Rennes, PUR, 2003, p. 76.
  15. K. Penderecki, Thrène à la mémoire des victimes d’Hiroshima (1959-1960). Interpreti: Polish National Radio Symphony Orchestra, K. Penderecki, direzione (10’33) https://www.youtube.com/watch?v=Hxqm-gPMVz8
  16. K. Stockhausen, Momente (1962-1969) ne Les grandes répétitions une émission de Luc Ferrari (45’43) https://www.youtube.com/watch?v=-wkA_XFus78
  17. Corrispondenza Cage/Boulez, 1949-1952, gennaio 1950. Edita solo in inglese dalla Cambridge University Press, 1995.
  18. J. Lacan., “La cosa freudiana”, in Scritti, Einaudi, Torino, 1974, p. 401.
  19. E. Varèse, Écrits, op. cit., p. 79.
  20. M. Moré, Le Dieu Mozart et le monde des oiseaux, Paris, Gallimard, 1971.
  21. F. Wolff, Pourquoi la musique ?, Paris, Fayard, 2015, p. 224.
  22. Cl. Lévi-Strauss, Le cru et le cuit, Paris, Plon, 1964, p. 32.
  23. Ibidem.
  24. Ivi, p. 34.
  25. C. Bourgois, Points de repères I, L’Esthétique et les Fétiches, 1981, p. 10, citato in F. Wolff, Pourquoi la musique ?, Paris, Fayard, 2015, p. 224.
  26. Pierre Boulez, Don estratto di Pli selon pli (1957-1962) per soprano e orchestra. Interpreti: Marisol Montalvo, soprano, Ensemble intercontemporain, orchestra del conservatorio di Parigi, Matthias Pinscher, direzione (estratto17’) https://www.youtube.com/watch?v=W56pQqEVetA
  27. P. Boulez, Penser la musique aujourd’hui, Paris, Gonthier, 1963, p. 31.
  28. I. Xenakis, Musique de l’architecture, Textes, réalisations et projets architecturaux choisis…, Marseille, éd. Parenthèse, 2006, p. 353. Citato da M. Solomos, in De la musique au son, L’émergence du son dans la musique des XXe et XXIe siècles, PUR, 2013, p. 495.
  29. M. Solomos, op. cit., p. 495.
  30. G. Grisey, Écrits ou l’invention de la musique spectrale, Paris, Musica Falsa, 2008, p. 273.
  31. M. Solomos, op. cit., p. 442.
  32. Francastel, citato da M. Solomos, op. cit., p. 238.
  33. M. Solomos, op. cit., p. 301.
  34. J. Lacan, Le Séminaire, livre IV, La relation d’objet, Paris, Seuil, 1994, p. 371.
  35. M. Solomos, op. cit., p. 416.
  36. G. Ligeti, Atmosphères (1961) per orchestra sinfonica. Interpreti : Gustav Mahler Jugendorechester, Jonathan Nott, direzione, Proms 2009 (10’47) https://www.youtube.com/watch?v=DJ70FjT6eTg
  37. K. Stockhausen Sirius per tromba, soprano, clarinetto basso, basso e elettronico (1975-1977). Interpreti: Annette Meriweather, soprano, Boris Carmeli, basso e, Suzanne Stephens, clarinetto basso, Markus Stockhausen, tromba (1h34’30) https://www.youtube.com/watch?v=PuP1CJtOsyg
  38. Ivi, p. 266.
  39. Ivi, p. 434.
  40. Pink Floyd Interstellar overdrive (1966) (17’23) https://www.youtube.com/watch?v=dKpJMJNGyJ4
  41. Ivi, p. 432.
  42. M. Chion, La Musique au cinéma, Fayard, 1995.
  43. M.-H. Brousse, « L’objet d’art à l’époque de la fin du beau », ne La Cause freudienne n° 71, 2009, pp. 201-205.
  44. J. Lacan., « Kant con Sade », Scritti, op. cit., p. 775.
  45. M. Solomos, op. cit., p. 328.
  46. G. Scelsi, Quattro pezzi su una nota sola, 1959.
  47. D. e J.-Y. Bosseur, Révolutions musicales, La musique contemporaine depuis 1945, Paris, Minerve, 1999, p. 154.
  48. A. Arbo, Le corps électrique. Voyage dans le son de Fausto Romitelli, Paris, L’Harmattan, 2005, p. 143.
  49. F. Romitelli, Professor bad trip per dieci strumentisti (1998-1999). Interpreti: Ensemble intercontemporaine, Ludovic Morlot, direzione (5’31) https://www.youtube.com/watch?v=jwLVz3ph8Kk
  50. M. Solomos, op. cit., p. 328.
  51. Ivi, p. 273.
  52. G. Rouget, La musique et la transe, Paris, Gallimard, 1980.
  53. M. Solomos, op. cit., p. 277.
  54. M. Chion, Le son, Paris, Nathan/Her, 2000, p. 137.
  55. Cfr. M. Solomos, op. cit., p. 267-268.
  56. Cfr. F. Wolff, Pourquoi la musique ?, Paris, Fayard, 2015.
  57. B. Duteurte, Requiem pour une avant-garde, Paris, Les Belles Lettres, 2006.
  58. F. Wolff F., Pourquoi la musique ?, op. cit., p. 108.
  59. Ivi, p. 111.
  60. Ivi, p. 113.
  61. Ivi, p. 171.
  62. Ivi, p. 115.
  63. Ivi, p. 178.
  64. K. Stockhausen, Kontakte (1958-1960). Interpreti: L’Instant donné e Motus (35’56) https://www.youtube.com/watch?v=KcMnlNrwYVE
  65. Citato da M. Solomos, op. cit., p. 433.
  66. F. Wolff, op. cit., pp. 112-113.
  67. J.-F. Lyotard, « Plusieurs silences », Musique en jeu n° 9, p. 64.
  68. J.-F. Lyotard, « Plusieurs silences », in Des dispositifs pulsionnels, Paris, 10/18, 1973, p. 282.
  69. Cfr. Il colloquio nel numero fuori-serie de La Cause du désir.
  70. G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux, Paris, Minuit, 1980, pp. 422-423.
  71. J. Lacan, Il Seminario. Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 2003, p. 160.
  72. B. Duteurtre B., op. cit., p. 345.
  73. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti…, op. cit., p. 165.