Disturbi del comportamento alimentare
Ho un’esperienza decennale nella psicoterapia con pazienti affetti da disturbi del comportamento alimentare. Dapprima presso il Servizio di Psicoterapia dell’Ospedale Niguarda, dove, con il prof. Salvatore Freni, abbiamo creato un servizio ad hoc – progetto finanziato dalla Regione Lombardia – per il trattamento ambulatoriale di pazienti affetti da tale disturbo; in seguito, quando il servizio pubblico è stato chiuso, presso il reparto di Nutrizione clinica dello stesso Ospedale. Il mio lavoro come psicoterapeuta si è dovuto adattare a due ambiti completamente diversi: nel primo caso, i pazienti chiedevano liberamente un sostegno psicologico, nel secondo caso – molto più complesso proprio per questa variante – i pazienti non chiedevano nulla, mentre erano i medici che decidevano chi avesse bisogno di un sostegno psicologico per portare avanti il proprio percorso di cura nutrizionale.
Entrambi le esperienze, molto formative, mi hanno permesso di verificare la validità e l’efficacia, anche con le pazienti ospedalizzate e quindi spesso gravi, dell’approccio psicoanalitico lacaniano e, nello specifico, delle indicazioni che Jacques Lacan ci ha fornito per aiutare chi soffre di disturbi del comportamento alimentare.
1) Anoressia
Lacan sostiene che l’oggetto dell’anoressica non è il cibo ma il niente, di cui si nutre attivamente, e che, in quanto oggetto simbolico, le serve per aprire una mancanza in un altro, in genere la madre, che la soffoca, con il cibo, con troppo amore o con la sua domanda, conscia e inconscia. Nel 1958, Lacan ha segnalato che
“l’anoressia non è un non mangiare, ma un mangiare niente”.
J.Lacan
Il niente, quindi, è un oggetto simbolico attraverso cui il bambino può rovesciare la relazione di dipendenza (per il cibo e per le cure) dalla madre: in questo modo, è la madre che dipende da lui. E aggiunge:
“É il bambino nutrito con più amore che rifiuta il cibo e che utilizza il suo rifiuto come un desiderio”.
J.Lacan
Il rifiuto del bambino, che esprime il suo desiderio, risponde in modo attivo al rifiuto dell’Altro materno di riconoscere la singolarità della sua domanda. In altri casi, il rifiuto del bambino può esprimere la sua esigenza che “la madre abbia un desiderio al di fuori di lui”; in altri termini, non vuole essere mangiato dalla madre, vuole che lei desideri altrove…. eventualmente il padre. Nei casi estremi di ospedalismo descritti da Spizt, il bambino rifiuta il cibo quando il cibo si confonde con l’oggetto del bisogno (non è più dono d’amore) e quando l’altro che si occupa di lui è totalmente anonimo (non c’è il legame di affetto che può esserci tra madre/padre e figlio).
In questo senso, l’anoressia è un modo di difesa del soggetto contro l’opacità del desiderio dell’Altro o contro la sua voracità. Spesso, infatti, il bambino si mette in pericolo per interrogare precisamente il desiderio dell’altro: “Mi può perdere?”.. “Cosa vuole che io sia?”
Nel 1974, verso la fine del suo insegnamento, Lacan afferma che l’anoressica è talmente
“preoccupata di sapere se mangia che, per scoraggiare questo sapere, […] questo desiderio di sapere, si lascerebbe crepare di fame”.
J.Lacan
Il mangiare “niente” e la “preoccupazione mentale” sono la risposta anticipata rispetto all’enigma di un desiderio di sapere che concerne un godimento del corpo (mangiare o altro). La pratica anoressica – che spesso prende origine da un’esperienza traumatica – produce, come spesso riferiscono le pazienti, una condizione di “bolla”, in cui il soggetto sembra vivere l’illusione dell’eternità. Di fatto, è un trattamento del tempo che permette all’anoressica di evitare l’angoscia, il desiderio, il godimento, i propri limiti e, oggi più che mai, gli eventuali insuccessi.
2) Bulimia
Nel caso della bulimia, invece, chi ne è affetto si ritrova in balia di un circuito infernale: sia che abbia cominciato con una forma di anoressia o direttamente dalla bulimia, la persona che ne soffre non riesce a sottrarsi da un’azione che la protegge dall’angoscia – riempirsi – perché sa che poi potrà liberarsi, tramite il vomito o altre strategie per scaricarsi. Se, all’inizio, questo sintomo può sembrare una soluzione quasi matematica – ciò che entra deve e può uscire – in realtà, a poco a poco, esso prende il sopravvento sul volere stesso della persona. Ma da che angoscia si protegge? A cosa serve questa infausta soluzione? Ovviamente, non c’è una risposta uguale per tutti: solo un ascolto aperto (e che non impone un sapere libresco) permette al paziente di trovare il senso e il non-senso di questa “trappola” – passaggio necessario per poter trovare una soluzione meno pericolosa e meno mortifera.
3) Obesità
L’obesità, di cui mi sono occupata anche nel reparto di Dietetica dell’Ospedale Niguarda, è un disturbo grave, che spesso viene considerato solo un problema di dieta. In realtà, il trattamento dietetico è imprescindibile da una presa in carico di tipo psicologico. In questo caso, il cibo diventa la “soluzione” per diversi disagi soggettivi: difficoltà di separazione, inibizione, difficoltà ad accettare il proprio corpo, solitudine patologica. Sul lato del sintomo, chi soffre di obesità verifica ogni giorno la propria impotenza a limitare o controllare gli impulsi, si sente in colpa per questo e, così, si “consola” di nuovo con il cibo. Anche in questo caso, il circuito pulsionale si mostra nel suo aspetto infernale. Per provare ad uscirne, è importante poterne parlare con uno specialista, per circoscrivere al meglio la funzione e la storia del sintomo stesso nella vista del soggetto.