“Surrealismo e psicoanalisi”

in T. Kemeny, André Breton, poeta massimo, Arcipelago Edizioni, Milano 2010

Gia molti specialisti hanno scritto libri e articoli sui rapporti tra surrealismo e psicoanalisi. Sappiamo che André Breton lesse molte opere di Sigmund Freud, che andò a trovarlo a Vienna, che la tecnica dell’“associazione libera” influenzò la sua poetica e che numerosi sono i punti in cui i pensieri di questi due grandi uomini del XX secolo sembrano intersecarsi. In Francia, poi, la teoria psicoanalitica elaborata da Jacques Lacan influenzò l’ambiente culturale dell’epoca e, in varie occasioni, lo psicoanalista di rue de Lille fece riferimento – non sempre in modo gentile, lo ammetto – all’esperienza surrealista di Breton, Dalì, Aragon, Tzara, etc. 

In queste brevi righe vorrei, però, soffermarmi sull’attualità del surrealismo, alla luce dell’esperienza psicoanalitica, in particolare quella lacaniana. Anzitutto, le due esperienze, quella poetica (del surrealismo) e quella psicoanalitica, mettono in valore un certo rapporto con il linguaggio: in tutti e due i casi, in effetti, si tratta di un’esperienza di parola, scritta e/o orale, in cui l’essere parlante, l’essere di parola, si confronta con i limiti del linguaggio, con “l’impossibile a dirsi”. L’analista, se seguiamo le indicazioni di Lacan, è il partner del paziente-analizzante in un percorso in cui quest’ultimo si scontra precisamente con tali limiti, e con gli effetti che ne conseguono. Alla fine del suo insegnamento, Lacan indicò addirittura in James Joyce, e nel suo modo di “saperci fare” con il linguaggio, quanto di meglio ci si può attendere da una fine analisi. 

Anche Breton ha un suo “saperci fare” con il linguaggio, che corrisponde grosso modo alla sua poetica: come notiamo dalla raccolta di poesie proposteci da Tomaso Kemeny, Breton utilizza la “scrittura automatica” – che si ispira allo stile dell’associazione libera –, una scrittura in cui l’estrema libertà degli accostamenti significanti produce una serie ininterrotta di sorprese, di vere e proprie aperture dell’inconscio. Per Breton, infatti, si trattava

“nientemeno che di ritrovare il segreto di un linguaggio i cui elementi cessassero di comportarsi come dei relitti sulla superficie di un mare morto. Per questo, importava sottrarli al loro uso sempre più strettamente utilitario” (nota 1). 
A. Breton 

E questo, come dice più oltre nel testo, senza pretendere “di dirigerne il corso”, in quanto si doveva “restituire il linguaggio alla sua vera vita”

Come l’analista indica al paziente “la (sola) regola dell’associazione libera”, Breton, nella sua poetica, spinge quanti la condividono a non accettare il linguaggio codificato, ma a lasciare spazio all’onirico, all’Altra scena, ammettendo come unico determinismo possibile quello della catena significante stessa. Come scrive Kemeny, “Breton ambì a fare coincidere la liberazione del linguaggio con la liberazione dell’essere” e scelse, come regola o oggetto, il “meraviglioso”, il meraviglioso della poesia o dell’incontro imprevisto. Anche la psicoanalisi, che non mira alla liberazione del o dal linguaggio ma, più semplicemente, a raggiungere un certo saperci fare con esso, scommette sull’incontro, nella cura, tra parola e corpo, tra due persone. Anche se, in quanto pratica rivolta a individui che soffrono, non può avere il “meraviglioso” come mito, ciononostante essa è in ascolto dell’artista che, spesso, senza saperlo, anticipa le scoperte stesse della psicoanalisi... L’etica della psicoanalisi, secondo Lacan, è inoltre quella del “ben-dire”, che dà spazio, come il surrealismo, a una poetica dell’inconscio contro quanti vorrebbero ridurre l’essere umano a un mero aggregato di cellule.