"Scrivere sul corpo"

ne Costruzioni psicoanalitiche, Rivista semestrale dell’Istituto di Psicoterapia Psicoanalitica, n. 2, Franco Angeli, Milano 2001

Da sempre l’arte e – nello specifico di questa mia breve riflessione – la letteratura, ha cercato di dire qualcosa sul corpo dell’essere parlante, ha cercato cioè di rappresentarlo, di (de)scriverlo o di riscriverlo. In altri termini, l’arte ha cercato di dare forma e parola al corpo umano che, secondo l’insegnamento di Jacques Lacan, è precisamente il prodotto dell’incorporazione, da parte dell’organismo vivente, dell’organo del linguaggio (nota 1). Il corpo umano, quindi, è il prodotto degli effetti del linguaggio sull’organismo vivente, è ritagliato dal simbolico stesso. L’arte, invece, è una creazione, una produzione “ex nihilo” unica nella sua particolarità, la quale, pur dando vita ad una realtà nuova, a qualcosa che prima non esisteva, si confronta sempre con l’Altro simbolico in cui viene a prodursi; l’artista, infatti, da un lato, fa i conti con le espressioni artistiche che l’hanno preceduto, con il discorso “vigente” e gli stili di linguaggio in uso e, dall’altro, si rivolge all’Altro del pubblico, ai suoi lettori. L’arte, quindi, non può che essere il prodotto del proprio tempo mentre il suo oggetto specifico, l’opera d’arte, acquista la propria esistenza in quanto tale. La singolarità dell’opera d’arte, pertanto, deriva precisamente dalla modalità con cui – a partire dal campo dell’Altro in cui si trova – ogni artista riesce a dare forma ai propri pensieri, ai propri sentimenti e alle proprie emozioni realizzando quella che per lui è l’opera d’arte necessaria, buona, nel senso che – come dice Lacan nel suo Seminario sull’etica a proposito del vaso – “va bene, si regge” (nota 2).

Anche Louis Paul Boon, un autore belga di lingua fiamminga che si è dedicato alla realizzazione di opere letterarie che vanno dal romanzo in senso lato al romanzo poliziesco per giungere sino al romanzo pornografico, ha avuto da sempre questa stessa ambizione. Ad esergo del romanzo Minuetto a tre (nota 3) – il testo che commenterò in relazione alla scrittura sul corpo – egli, infatti, scrive: “...ho cercato di modificare e di migliorare il romanzo come forma letteraria, non so se ci sono riuscito...”. Lamodalità di questo suo tentativo in Belgio ha suscitato, d’altro canto, violente critiche sia per il suo uso di espressioni crude e volgari, sia per il suo stile molto diretto e, soprattutto, per gli attacchi sferrati contro il capitalismo, la chiesa e lo stato. Critico nei confronti di tutti i sembianti del mondo contemporaneo, Boon ritiene, inoltre, che, a differenza di quella che egli chiama la Vita, il romanzo non sia altro che “un’abile rattoppatura”, una lettera che cerca di dare forma alla vita senza mai riuscirvi appieno; il compito dell’artista, quindi, a suo parere, si riduce ad essere solo quello di “ridire il-mondo-d’oggi con altre parole” (nota 4).

Minuetto a tre mi sembra un esempio molto interessante dell’invenzione che un artista contemporaneo ha trovato per scrivere sul corpo e del modo in cui – nell’epoca che Jacques-Alain Miller ha definito come quella dell’Altro che non esiste (nota 5), vale a dire l’epoca in cui ormai tutti gli ideali si eguagliano, diventano ideali di massa perdendo la loro forza e il loro valore – il linguaggio, come scrive Lacan, “corp(si)fica” il corpo dell’essere parlante. Nell’epoca del capitalismo avanzato e dell’apogeo del discorso della scienza – che l’autore peraltro critica ampiamente in quella che viene considerata la sua opera maggiore, La route de la chapelle – il linguaggio restituisce al soggetto un corpo ben diverso rispetto a quello del passato. Se partiamo, quindi, con Lacan, dall’idea secondo cui “è il tranchant del significante che presiede al suo taglio” (nota 6), si tratta di vedere in che modo quanto viene detto o scritto sul corpo influenza, da un lato, il dire del protagonista in quella che è la soluzione sintomatica della sua esistenza e, dall’altro, la soluzione artistica trovata dall’autore stesso per dare corpo al suo testo.

La trama del romanzo è molto semplice: in esso si narra la storia di un giovane ventisettenne che lavora dentro delle cantine frigorifere e che trascorre tutte le sue serate a casa praticamente in solitudine. Il protagonista è sposato con una donna di venticinque anni che egli desidera ma che, a differenza di lui, è sempre molto attiva e indaffarata sia dentro che fuori casa. Nella loro casa – ed è questo il terzo personaggio che partecipa al minuetto – trascorre molte ore delle sue giornate una ragazzina tredicenne che aiuta la moglie nelle faccende domestiche e che si diverte a “provocare” il marito mettendolo in imbarazzo, mostrando il proprio corpo o dicendo cose che generalmente non si possono dire in quanto per lei è “eccitante fare qualcosa di proibito”.

Ciò che costituisce la peculiarità del romanzo – e che corrisponde appieno all’ambizione dichiarata all’inizio del testo dall’autore – è lo stile, il modo, cioè, in cui esso è stato scritto. Il testo, infatti, è diviso in tre capitoli ben distinti (“Le cantine frigorifere”, “Il mio pianeta” e “L’isola”) nei quali l’io narrante corrisponde in un primo tempo al marito, poi alla ragazzina e, da ultimo, alla moglie. In ogni capitolo, ogni singolo personaggio descrive la medesima vicenda vissuta e interrogata a partire dal proprio punto di vista. Lo stile linguistico di ogni personaggio, invece, non si differenzia molto in quanto si tratta piuttosto dello stile personale dell’autore il quale, in maniera talvolta sorprendente, mette nella bocca della ragazzina dei termini che difficilmente fanno parte del vocabolario di una tredicenne. L’autore stesso, d’altronde, sostiene senza problemi che tutto nella sua opera è autobiografico, che egli non ha immaginazione. Il monologo interiore – che rimanda alla migliore tradizione letteraria del XX secolo –, inoltre, è accompagnato da una particolare novità stilistica e tipografica. Nella parte alta di ogni pagina del testo e in un formato tipografico diverso rispetto a quello del romanzo vero e proprio, l’autore, infatti, ha inserito una successione di brevi fatti di cronaca che descrivono per lo più degli avvenimenti violenti. In realtà questi terribili fatti di cronaca, che si susseguono uno dopo l’altro, pagina dopo pagina, corrispondono ai ritagli di giornale che il protagonista maschile colleziona con l’intenzione di “fare la raccolta di ritagli di giornale come delle figurine e incollarli in un libro” (nota 7). Il discorso in stile giornalistico, che incornicia le pagine del romanzo e che, quindi, modifica anche il corpo del testo nel suo statuto di lettera, mostra chiaramente la modalità contemporanea di scrivere sul corpo con la quale l’autore sceglie di confrontarsi. In questo senso, parafrasando l’autore, potremmo dire che, effettivamente, il minuetto di cui si tratta viene ballato in tre: l’autore, la sua opera di scrittura e l’Altro dell’informazione giornalistica che riduce le vicende umane a dei meri fatti di cronaca pubblicati al solo scopo di aumentare le tirature, che trasforma le loro sofferenze, e in particolare quelle dei loro corpi, a dei “ritagli” impersonali da dare in pasto all’avidità del lettore medio. 

Nel capitolo in cui prende la parola, il protagonista, da un lato, descrive il proprio corpo come una macchina della quale non capisce il funzionamento (“lo stomaco è una macchina che deve essere riempita con una sostanza per combattere una sensazione sgradevole” (nota 8)) né, tantomeno, le finalità e, dall’altro, come una realtà interna-esterna a sé che egli non sa controllare e che lo sconvolge. Di fronte all’incontro sempre angosciante con il reale del corpo proprio, il protagonista si difende credendo ed identificandosi all’immagine di sé che, da sempre, gli altri – e in particolare sua madre – gli hanno fornito. Della madre, infatti, egli scrive che: “La sua voce tradiva un’innegabile preoccupazione. Sin da bambino mi sapevo circondato da quella preoccupazione quasi ansiosa ... perché ero così immobile. E più tardi lei, mia madre, si consolava dicendo alle vicine di casa che ero un bravo ragazzo” (nota 9). E, in effetti, lo stile della sua vita sembra confermare la sentenza di impassibilità e di indifferenza pronunciata dalla madre: il protagonista, infatti, trascorre le proprie giornate lavorando in solitudine dentro le cantine frigorifere, a casa si rinchiude nel suo stanzino a raccogliere ritagli di giornale, evita ogni contatto umano e si dedica a quelli che egli definisce degli “interminabili monologhi” nei quali non riesce a “non scivolare”. Anche a proposito della giovane moglie egli dice di rimanere impassibile sessualmente anche se la ama e la desidera; si ritiene un animale solitario che non avrebbe mai dovuto unirsi con “uno di loro” in quanto l’assurdità dell’esistenza non gli permette di vivere, lo sprofonda nei suoi dubbi e nei suoi pensieri (gli altri, invece, “...vivono e un giorno muoiono, come le mosche, e non ne capiscono nulla. Eppure ciarlano tutto il giorno. Mosche brutte e vecchie che ronzavano e l’indomani avevano già dimenticato” (nota 10). La moglie, d’altro canto, sembra ricalcare interamente la figura materna – sia a livello dei suoi enunciati (“Anche lei era dunque in ansia perché ero così tranquillo, così incerto in questo mondo, vivevo pieno di dubbi” (nota 11), sia per quanto riguarda la domanda inconscia che il protagonista rivolge ad entrambe (“Eppure mia madre in un modo o in un altro mi ha voluto bene...Eppure anche mia moglie in un modo o nell’altro deve volermi bene” (nota 12). Un corpo impassibile e freddo, quindi, in un certo senso, è il corpo che il protagonista – come un estraneo nel mondo dei vivi – si racconta attraverso l’Altro del linguaggio; ed è proprio per mantenere questo stato di impassibilità rassicurante rispetto al reale del corpo che egli ha scelto una sorta di vita “congelata”. Dentro le cantine frigorifere, infatti, egli dice: “Il mondo esterno mi abbandonava, per otto ore consecutive ero un fantasma che si aggirava solitario per un ettaro di vacue cantine frigorifere. Durante otto ore avrei allentato o leggermente serrato alcuni rubinetti, buttato giù un paio di cifre congelate, fantasticato o parlato a lungo con me stesso” (nota 13).

In realtà, però, il corpo del protagonista è tutt’altro che impassibile o indifferente. Nel tragitto che percorre per rientrare a casa dopo il lavoro, infatti, egli abbandona temporaneamente i suoi monologhi solitari e si lascia distrarre – nel senso che ne è completamente catturato - dallo spettacolo di un gruppo di ragazzine che giocano appese ad una sbarra di ferro. Egli le descrive in questi termini: “Appiccicate come mosche. Si aggrappavano alla sbarra con le mani, vi appoggiavano i piedi e si lasciavano ricadere [...] I miei occhi vi aderivano, ma costringevo il mio sguardo all’indifferenza. In modo sempre più spaventoso il sangue defluiva da quei polsi senza forza, di cui presentivo dolorosamente le vene [...] Più mi avvicinavo alle ragazzine che giocavano, più le mie vene si svuotavano togliendo forza alle mani. I miei occhi si inebriavano, ma fra le mie gambe un uccello spaventato si nascondeva fra gli arbusti” (nota 14).

 

Dalla lettura di questi brevi passi del testo possiamo notare come le modalità scelte dal protagonista per dire il corpo proprio siano essenzialmente tre: il corpo inteso come una macchina per lui incomprensibile (“un organismo fragile e complicato che sta nascosto sotto la nostra pelle” (nota 15)), il corpo-organismo animale che infrange il sogno di impassibilità del protagonista e il corpo fatto a pezzi degli articoli di stampa.

Il corpo-macchina è il corpo che il protagonista talvolta descrive utilizzando un vocabolario prettamente scientifico: ogni organo del corpo, infatti, può essere descritto in base alla sua funzione biologica (quella del cuore, ad esempio, è precisamente quella di pompare il sangue). Questa concezione del corpo, come Jacques-Alain Miller ha spiegato con estrema chiarezza nel suo articolo “Biologie lacanienne et événement de corps” (nota 16), è il corpo che è stato “scoperto” in primi luogo da Cartesio, è il corpo-macchina su cui si è fondata e sviluppata la scienza e, in particolare, la biologia. Il protagonista, però, rifiuta completamente la scienza e il suo dire sul corpo: “Odiavo i medici, quelle scimmie bianche della scienza, quei preti di una nuova religione che mandavano odore di pus e d’etere. Li odiavo perché intervenivano troppo tecnicamente, perché non lasciavano morire l’essere umano come qualsiasi altro animale ferito, ma iniettavano sieri, facevano trasfusioni di sangue e asportavano pezzi. Li odiavo perché erano, per così dire, dei e preti, e anche schiavi di questa civiltà mostruosa” (nota 17). A differenza, quindi, del discorso scientifico che riesce a far corrispondere – nominandola - una funzione specifica ad ogni organo del corpo, che riesce a trovare un senso in grado di spiegare ogni trasformazione del corpo, il protagonista si interroga e si angoscia sul senso degli organi che, dentro il corpo, assolvono il loro compito. Egli, cioè, fa l’esperienza del corpo vivente e ne è spaventato perché non lo capisce, perché, in realtà, di quel corpo nessuno dice niente, perché non ci sono parole per esprimere quello che egli sente dentro di sé. 

Dato che il discorso scientifico non riesce a dire nulla del corpo che vive, vale a dire del corpo che gode, il protagonista tenta di parlarne utilizzando delle metafore che si rifanno per lo più al mondo animale – paragonandolo, di conseguenza, piuttosto ad un organismo che non a un corpo. Nel testo, infatti, troviamo una sorta di bestiario contemporaneo – costituito da pesci, uccelli, mosche, topi, ecc.. – che permette al protagonista di descrivere, in un certo senso, l’indescrivibile. Egli, cioè, parla del proprio corpo che vive come se si trattasse di qualcosa di totalmente altro da sé, che non riconosce come proprio, ma dal quale, tuttavia, è inevitabilmente e inspiegabilmente mosso. 

La terza modalità di dire il corpo è rappresentata dal breve ricordo del fatto di cronaca che riproduce lo stile giornalistico: “Pensavo a ciò che avevo letto sul giornale, di una giovane che aveva ucciso il suo bambino con una vanga e l’aveva sepolto nel giardino. Rabbrividii eppure restai a guardare affascinato” (nota 18). In questo caso il protagonista dice il corpo così come viene riportato sui quotidiani: un corpo che, come le “vicende” nelle quali si trova ad essere coinvolto, è sostanzialmente un corpo congelato, fatto a pezzi, ritagliato e, quindi, morto, non più angosciante. Gli articoli che il protagonista ritaglia e colleziona, infatti, scritti in uno stile per così dire referenziale e pseudo-scientifico, sono per lo più delle descrizioni ciniche e fredde di fatti di cronaca quotidiana (esplicito è pure il riferimento ai casi di pedofilia che hanno colpito il Belgio di recente) come pure dei racconti al limite del surreale. Aprendo a caso il testo, nella parte alta della pagina, possiamo leggere articoli di questo tipo: 

/ Una donna ubriaca alquanto obesa si era lasciata cadere per smaltire la sua sbornia. Sfortunatamente era piombata sul figlio minore che è morto lentamente per asfissia. Il figlioletto di tre anni è uscito più tardi per strada raccontando che il suo fratellino non si muoveva più. / Una diciassettenne aveva fatto la conoscenza di un soldato che le aveva dato appuntamento per la sera seguente, tuttavia ad aspettarla non vi erano uno bensì quattro soldati che l’hanno portata in una strada isolata e trascinata in un giardino....
(nota 19).

Per il protagonista, quindi, lo stile cinico e surreale dei questi ritagli di giornale diventa l’unico modo sopportabile per dire il corpo, uno stile che gli permette di fare una collezione di “scritti” sul corpo. Mentre il discorso scientifico spiega gli eventi e le trasformazioni del corpo, lo stile giornalistico – che spesso Boon, fingendosi giornalista, utilizza nei suoi testi – proprio in quanto ha di mira la “notizia”, da un lato è alla ricerca del dettaglio particolare che rende unico un evento mentre, dall’altro, banalizza questo stesso dettaglio, lo negativizza rendendolo talvolta esagerato e spesso impersonale. Alla fine, tutti i particolari finiscono per equivalersi, tutte le vicende umane diventano semplici “ritagli” di giornale che si accumulano, uno dopo l’altro, in un mondo sempre più privo di ideali. Lo stile giornalistico, soprattutto quello utilizzato per descrivere i cosiddetti “fatti di cronaca”, esprime al meglio il livellamento degli ideali che caratterizza l’epoca dell’Altro che non esiste. Come mette bene in evidenza Jacques-Alain Miller nella sua “Biologia lacaniana”, anche se l’Altro simbolico non esiste, esso ha comunque un corpo al quale non ci si può sottrarre, un corpo che produce godimento nel soggetto parlante. E, in effetti, questa ultima modalità di dire il corpo ha degli effetti di godimento sul protagonista che, durante i suoi lunghi monologhi, non può far altro che ripetersi all’infinito le parole lette e ritagliate dai giornali. 

Se, per concludere, prendiamo in considerazione lo stile di Louis Paul Boon, vale a dire la sua soluzione stilistica molto particolare, anche in questo caso possiamo sostenere che si tratta di uno stile che riflette la stessa non esistenza dell’Altro. Come scrive in modo molto chiaro Éric Laurent, a proposito di molta letteratura contemporanea, “Lo scrittore ha la tendenza a situarsi come un giornalista nel paese del godimento, ognuno descrive il proprio incesto, il proprio soggiorno nel paese di tale o talaltra pratica più o meno perversa [..] il soggetto moderno vuole attraversare [..] i diversi modi in cui il godimento lo marca senza esservi veramente classificato.” (nota 20). Ne La route de la chapelle, Boon sembra essere tristemente consapevole di questa particolare situazione che corrisponde anche a una sorta di limitazione per l’artista: egli, infatti, avrebbe voluto scrivere un romanzo simile a quello medievale di Reynart le Goupil. I tempi, però, sono cambiati, per cui a lui non resta che questo:

“scrivo sulle apparenze, che sono la sola cosa che conta ancora al mondo d’oggi ... e sorrido, quando il figlio del vecchio padrone-pittore crede in queste apparenze, ragione di vita e di salvezza...”.
L. P. Boon ( La route de la chapelle, cit., pp. 282-283. nota 21) 

 

1 J. Lacan, “Radiophonie”, Autres écrits, Éditions du Seuil, Paris 2001, p. 409.
2 J. Lacan, Il Seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, 1959-1960, Einaudi, Torino 1994, p. 156.
3  L. P. Boon, Minuetto a tre, Edizioni Associate Editrice Internazionale, Roma 1996.
4  L. P. Boon, La route de la chapelle, L’Age d’Homme, Lausanne 1999, p. 18.
5  J.-A. Miller, E. Laurent, L’Autre qui n’existe pas et ses Comités d’éthique, 1996-1997, Corso tenuto presso il Dipartimento di Psicoanalisi dell’Università di Parigi VIII (inedito).
6  J. Lacan, Le Séminaire. Livre XIV. La logique du fantasme, (1966-1967), inedito, p.66.
7  L. P. Boon, Minuetto a tre, cit., p. 9.
8  Ibidem, p. 13.
9  Ibidem, p. 23.
10 Ibidem, pp. 21-22.
11 Ibidem, p. 23.
12 Ibidem, p. 18.
13 Ibidem, p. 8.
14 Ibidem, pp. 10-11.
15 Ibidem, p. 38.
16 J.-A. Miller, “Biologie lacanienne et événement de corps”, ne La Cause freudienne, n. 44, febbraio 2000.
17 L. P. Boon, Minuetto a tre, cit., pp. 39-40.
18 Ibidem, pp. 33-34.
19 Ibidem, pp. 64-65.
20 É. Laurent, “L’envers du symptôme hystérique”, ne La Cause freudienne, n. 44, cit.
21 L. P. Boon, La route de la chapelle, cit., pp. 282-283.