Nei giorni scorsi, l’Ordine degli psicologi italiani ha sottoposto ai propri iscritti delle modifiche al Codice deontologico che andavano votate, nel loro complesso, esprimendo un sì oppure un no.[1] Nessun dibattito e nessuna costruzione condivisa con gli iscritti, soprattutto per quanto concerne la nuova parte intitolata “Premessa etica… (coi suoi) quattro principi”. Mi sembra, già questa, una procedura tutt’altro che etica…. Ad ogni modo, quello che ho notato è la china universalizzante e medica che il nuovo Codice introduce.
Da un lato, per rispetto degli iscritti, al posto del generico “lo psicologo è tenuto a…”, l’Ordine si è preso la briga di trasformarlo ogni volta in “le psicologhe e gli psicologi”, come vuole la cultura imperante dell’inclusione. Un cambiamento di spessore… oserei dire. Vengono cancellati, invece, gli unici termini che rinviavano alle specificità delle diverse formazioni degli iscritti all’Ordine: “Sono specifici della professione di psicologo tutti gli strumenti e le tecniche conoscitive e di intervento relative a processi psichici (relazionali, emotivi, cognitivi, comportamentali) basati sull’applicazione di principi, conoscenze, modelli o costrutti psicologici.” Gli iscritti, come sappiamo, non sono solo gli psicologi, che di fatto non possono offrire un percorso di psicoterapia, ma sono soprattutto gli psicoterapeuti, che si rifanno ad ambiti diversi, e gli psicoanalisti che hanno alle spalle formazioni lunghe e continue. Che strano! Si scrive “le psicologhe e gli psicologi” per includere tutti invece di mettere in valore le diversità e la ricchezza delle formazioni…. Rispetto alle quali, forse, anche il cosiddetto pubblico avrebbe diritto di avere maggiori informazioni da un Ordine che opera per tutelarli.
Un altro termine che, inoltre, è stato introdotto più volte nel testo è quello di “trattamento sanitario”! Termine che, purtroppo, in campo psy, fa venire in mente soprattutto l’intervento (estremo) che talvolta gli psichiatri o le autorità giudiziarie devono attuare, nelle situazioni in cui c’è un pericolo grave per il soggetto che potrebbe compiere un atto violento contro di sé o nei confronti di altri. Non riguarda però noi, che, invece, offriamo uno spazio di parola alla persona che “soffre del suo corpo (…) o del suo pensiero” senza pregiudizi e tanto meno senza richieste di conformità a chi si rivolge a noi. E allora perché ridurre, includendovi gli interventi psicologici, le psicoterapie e le esperienze di analisi, al trattamento sanitario?!?
Il motivo è semplice e, al tempo stesso, inquietante: si avvera quello che Lacan aveva già scritto ne “La scienza e la verità”, ormai 57 anni fa, ovvero che “la psicologia (…) ha scoperto il modo per sopravvivere a se stessa nei servizi che rende alla tecnocrazia; o, come conclude con un humor veramente swiftiano un sensazionale articolo di Canguilhem: in una scivolata di toboga dal Pantheon alla Prefettura di Polizia”[2]. In altri termini, la psicologia rischia di diventare lo strumento della Polizia e della Giustizia. I cambiamenti apportati al Codice deontologico “fanno fuori” i professionisti psi, la loro formazione e la loro etica, riducendoli ad essere dei collaboratori del sistema giudiziario, incuranti dei diritti del paziente e delle loro famiglie! Il consenso (dis)informato, il trattamento sanitario (più o meno obbligatorio) diventano così degli strumenti di potere e di coercizione. “La salute mentale”, ha scritto ormai qualche anno fa J.-A. Miller, “è l’ordine pubblico”. In questo caso, grazie agli psicologi più o meno consapevoli, è l’ordine pubblico a costo ridotto, vista la condizione in cui versa la sanità pubblica.
La psicoanalisi, come sappiamo, è tutt’altra cosa! Ed è per questo motivo che le modifiche apportate a un Codice che prima salvaguardava il segreto professionale e l’autodeterminazione di colui che chiede di poter parlare con un professionista, che chiede di essere di essere ascoltato in tutta libertà, sembrano un ritorno al passato, un passato in cui c’è un altro che decide per il soggetto cosa è bene o male per lui. Ma il mondo è cambiato! Lo vediamo tutti i giorni. L’idea di normalità (e, di conseguenza, di anormalità) non ha più alcun senso; quello che il “fascismo”, come lo chiamava Pasolini, del consumismo ha prodotto, grazie allo sviluppo della scienza, è un mondo in cui ognuno rivendica il proprio stile di vita, il proprio modo di godimento. “Tutti sono folli”, disse Lacan a Vincennes nel 1978! Per accogliere questa complessità non si può ridurre, abbassare, livellare, piuttosto si deve aprire – così ci esorta Jacques-Alain Miller nel suo testo di presentazione per il prossimo Congresso dell’AMP[3] – alle differenze, all’uno per uno, nel rispetto della sua singolarità.