“- Per me pochissimo -: anoressia e sapere inconscio”

ne La Psicoanalisi, L’anoressica e l’inconscio, n. 50, Astrolabio, Roma 2011.

“Per me pochissimo” è l’enunciato che, secondo quanto ci dice Lacan nel suo Seminario “Les non-dupes errent” (1973-74) (nota 1), alcuni bambini utilizzano per rispondere al desiderio di sapere che essi attribuiscono al loro Altro. Mentre dei bambini esprimono la loro compiacenza nei confronti del desiderio di sapere attribuito all’Altro, in particolare ai genitori, con mille “Perché?” – del tipo, “Perché il sole tramonta?”, “Perché questo?” o “perché quello?” –, per altri bambini, dice Lacan, “questa cosa attribuita all’Altro, molto spesso, è accompagnata da un «per me pochissimo»”. “Per me pochissimo”, dice inoltre Lacan, ha a che vedere, è in relazione anche con l’anoressia mentale in quanto essa è un’azione che, come ogni altra azione, enuncia qualcosa; nello specifico, dice Lacan, l’anoressia “è un’azione che enuncia «mangio niente»”, riprendendo un’indicazione, relativa all’anoressia, formulata già nel primo periodo del suo insegnamento e che ha sempre mantenuto in seguito. L’anoressia, quindi, è un’azione, un fare – oggi diremmo anche una pratica – che enuncia qualcosa, che dice: “Io mangio niente”. Oltre a questa formulazione, nel 1974, Lacan introduce un’articolazione nuova che, di primo acchito, ci risulta problematica, se non addirittura enigmatica. Lacan dice, infatti:

“Ma perché mangio niente? Questo non ve lo siete chiesto, he !, ma, se lo chiedete alle anoressiche o, meglio, se lasciate che ci arrivino, io l’ho chiesto, l’ho chiesto perchè ero già nella mia vena inventiva su questo tema, l’ho chiesto; allora, che mi hanno risposto? Ma è molto chiaro: era talmente preoccupata di sapere se mangia e, per scoraggiare tale sapere, questo sapere così, desiderio di sapere, nevvero, solo per questo si sarebbe lasciata morire di fame, la ragazza! È importantissimo. È importantissima questa dimensione del sapere e anche di accorgersi che, che non è il desiderio che presiede al sapere, ma che è l’orrore.” (nota 2).
J. Lacan

Questa, per così dire, “chicca” – e qui riprendiamo una metafora che Lacan stesso utilizza nel suo testo – è molto densa e tutt’altro che evidente. La questione che pone Lacan, infatti, è duplice. Anzitutto, l’anoressica è troppo preoccupata di sapere se mangia, o se mangerà, e, proprio perché non vuole saperne niente, di tale sapere, si lascia morire di fame. A questo, però, Lacan aggiunge anche che “non è il desiderio che presiede al sapere, ma che è l’orrore”. 

Come comprendere, quindi, questa articolazione? In questo breve elaborato scritto tenterò di riflettere su quanto Lacan ci dice, per trarne delle conseguenze, non solo a livello teorico ma anche clinico. Per arrivarci, è necessario, però riprendere brevemente le poche indicazioni che Lacan ci ha dato, nel corso del suo insegnamento, sul tema dell’anoressia cosiddetta mentale. 

L’anoressica, secondo la lettura che Lacan ne ha fatto nello Scritto, “La direzione della cura”, di fronte al cibo – un oggetto che circola nel campo dell’Altro, un oggetto di scambio che include e che è incluso nell’Altro“mangia niente”. È importante notare che Lacan non dice “mangia il niente” e neppure “non mangia niente”; egli dice “mange rien”, niente, che in francese, tra l’altro, deriva dal latino res, cosa. Per spiegare meglio cosa intenda con tale affermazione, Lacan prende come esempio il caso di Kris noto come il caso de “L’uomo delle cervella fresche” (nota 3), del quale dice che si tratta di un caso di anoressia mentale. Il paziente di Kris viene presentato da Lacan anche come “un soggetto inibito nella propria vita intellettuale e particolarmente incapace di giungere a una qualche pubblicazione delle sue ricerche – e questo a causa di un impulso a plagiare del quale non sembra che possa rendersi padrone” (nota 4). Come dirà più avanti nel testo Lacan, la questione principale del caso, “Non è che il [...] paziente non ruba, che qui importa. È che non ... nessun non: è che ruba niente” (nota 5), così come l’anoressica mangia niente. Il paziente di Kris, che porta in analisi la sua preoccupazione di essere un plagiario, in realtà non ruba le idee degli altri ma, piuttosto, come scrive Lacan, “È che possa avere una idea sua, che non gli viene in mente o che lo sfiora appena”. Kris, però, non ha colto questa cosa; ha creduto invece che si trattasse di una difesa rispetto alla pulsione (nel senso che il paziente teme di essere un plagiario perché, in realtà, vorrebbe esserlo) e, dopo aver interpretato a partire da quella che lui definisce come “la superficie”, produce l’acting out del paziente. Quest’ultimo, infatti, gli riferisce che, dopo ogni seduta, se ne va a mangiare il suo piatto preferito, che è, per l’appunto, “cervella fresche”  (nota 6). 

Qualche riga dopo, sempre nello stesso Scritto, Lacan aggiunge: “Anoressia, in questo caso, quanto al mentale, quanto al desiderio di cui vive l’idea, e questo ci porta allo scorbuto che regna sulla zattera su cui l’imbarco con le vergini magre.” (nota 7). L’anoressia, cioè, è detta mentale in quanto è un’anoressia – termine che deriva dal greco anoreksía, composto da an-“an” e óewksis, “appetito” – che concerne il mentale, nello specifico è un non appetito, un’assenza di appetito rispetto al desiderio di cui vive l’idea. Il paziente di Kris, in altri termini, viene definito anoressico perché non ha appetito, ha un rifiuto rispetto al desiderio necessario a dar vita alle idee o al desiderio stesso che le anima. Ha paura di avere idee proprie, si immagina di rubarle, o di averle rubate, ad altri mentre di fatto, come dice Lacan, egli “ruba niente”. Si rifiuta, cioè, di avere idee proprie perché teme/desidera rubarle all’Altro, in ogni caso suppone che siano un avere dell’Altro; al desiderio dell’Altro, egli oppone quindi il suo niente, che si enuncia come un “niente idee”. In questo senso, la strategia messa in atto dal paziente di Kris assomiglia alla strategia anoressica: anche l’anoressia, infatti, intesa più a livello del “disturbo del comportamento alimentare”, oppone al desiderio dell’Altro, di fronte ad esso, un niente. Il suo niente è “mangio niente”, “niente cibo” (nota 8) e, come abbiamo già accennato prima, “per me pochissimo” rispetto al sapere inconscio. 

Per comprendere meglio cos’è il niente dell’anoressia, possiamo riferirci anzitutto al Seminario IV, La relazione d’oggetto, in cui Lacan spiega che

“l’anoressia mentale non è un non mangiare, ma un non mangiare niente [...] questo vuol dire mangiare niente. Niente è, per l’appunto, qualcosa che esiste sul piano simbolico. Non è un nicht essen, è un nichts essen. [...] il bambino [...] questa assenza assaporata in quanto tale, la usa di fronte a colui che ha di fronte a sé, cioè la madre da cui dipende. Grazie a questo niente, egli la fa dipendere da sé” (nota 9).
J. Lacan

Come ha commentato J.-A. Miller, il bambino menzionato da Lacan mette in scacco la sua dipendenza rispetto all’altro nutrendosi non di qualcosa, del seno, come oggetto parziale, ma dell’oggetto niente. In questo modo, egli rende il suo altro dipendente da sé, modifica sostanzialmente quelli che potremmo definire “i rapporti di forza”. Di fronte all’onnipotenza della madre, che può dare o rifiutare, il bambino, tenta di aprire una breccia nel suo Altro onnipotente e oppone il suo “mangiare niente” in quanto, come dice lo stesso Lacan in quegli anni, “è il bambino nutrito con maggiore amore che rifiuta il cibo e che si serve del suo rifiuto come di un desiderio” (nota 10). Il “mangiare niente” del bambino anoressico, quindi, è un rifiuto rivolto all’Altro che è al tempo stesso un tentativo di far esistere il proprio desiderio e, in questo senso, è anche un appello all’Altro. Come dirà ancora Lacan, nella sua “Conferenza sull’etica della psicoanalisi”, del 1960,

la “passione della bocca, la più appassionatamente ingozzata, è quel Niente in cui, nell’anoressia mentale, reclama la privazione dove si svela l’amore. La passione dell’avaro è quel Niente cui si riduce l’oggetto rinchiuso nella sua beneamata cassetta” (nota 11). 
J.Lacan

Questa, quindi, è, per così dire, la risposta che l’anoressia mentale in quanto pratica enuncia, di fronte all’enigma del desiderio dell’Altro: è il Niente a cui è ridotto l’oggetto d’amore, è la privazione che rivela, che fa esistere l’amore in quanto tale. Questa lettura dell’anoressia intesa come una pratica in difesa del desiderio puro, affinché non venga completamente riassorbito nella domanda, si colloca in un determinato periodo della riflessione di Lacan, che corrisponde al primo tempo del suo insegnamento. Il primo periodo dell’insegnamento di Lacan, come J.-A. Miller ha variamente sviluppato nel suo Corso dell’Orientamento lacaniano, è quello che comincia “affermando la dominazione del simbolico sul reale, una dominazione assoluta, così assoluta che il reale è addirittura escluso dal campo psicoanalitico” (nota 12). Ed è anche il periodo in cui la pratica anoressica viene associata da Lacan a quella che potremmo chiamare una particolare modalità del rifiuto isterico, oltre al più classico rifiuto del corpo femminile (nota 13). Facciamo notare, inoltre, che in questo stesso periodo, l’ipotesi dell’inconscio, secondo Lacan, è quella dell’inconscio “strutturato come un linguaggio”, nel senso che l’inconscio risponde a una logica del significante, a una logica eminentemente simbolica. È la posizione sostenuta, ad esempio, in “Funzione e campo della parola e del linguaggio”, in cui Lacan ritiene che “l’inconscio è quella parte del discorso concreto in quanto transindividuale che manca alla disposizione del soggetto per ristabilire la continuità del suo discorso conscio” (nota 14).   

Nell’ultimo e nell’ultimissimo insegnamento di Lacan, invece, come ha spiegato di recente J.-A. Miller, troviamo “l’affermazione della supremazia del reale sul simbolico e sull’immaginario, a scapito dell’uguaglianza apparente che lo schema del nodo borromeo comporta” (nota 15). Questo significa, anzitutto, che il concetto di godimento e quello di reale hanno preso il sopravvento, rispetto allo strapotere del simbolico; che l’ipotesi dell’inconscio si è modificata nel senso che l’utilizzo del nodo, da parte di Lacan, durante le sue lezioni, ha fatto emergere piuttosto il suo lato di “inconscio reale”, da intendersi, secondo le recenti elaborazioni di J.-A. Miller, come l’inconscio fuori senso, come il resto che rimane fuori dal simbolico. Significa anche che il sinthomo è diventato il modo singolare di ognuno di saperci-fare precisamente con il godimento. Ed è in questo contesto che, nel 1974, Lacan enuncia la formulazione che qui ci interroga, ovvero la sua nuova ipotesi sull’anoressia. Lacan, come abbiamo già indicato, dice che l’anoressica si lascerebbe morire di fame perchè è “talmente preoccupata di sapere se mangia” e, proprio per questo, “scoraggia tale sapere”, alla base del quale sta l’orrore. 

L’anoressica, anzitutto, è presa dentro la lotta-preoccupazione di sapere se mangia – “Mangerò o non mangerò?” – e ciò a cui lei dice di no, quello che rifiuta, oltre al cibo, è precisamente questo sapere. Come sappiamo, nell’insegnamento di Lacan, il termine “sapere” è da intendersi quasi sempre nel senso del “sapere inconscio”: come lui dice, sempre nello stesso Seminario, “l’inconscio non è una conoscenza: è un sapere e un sapere in quanto lo definisco con la connessione di significanti”, è “quello che è saputo” (nota 16), che determina quello che noi facciamo e che è “determinato da un’articolazione supportata dalla generazione precedente” (nota 17). Con queste affermazioni, Lacan riprende la sua prima concezione dell’inconscio, ovvero che l’inconscio è “strutturato come un linguaggio”, come la connessione di più significanti (S1-S2) che, però, non è una conoscenza ma un sapere che esiste e che agisce di per sé; l’essere parlante lo subisce, non lo padroneggia (come accadrebbe, invece, se l’inconscio fosse una conoscenza), e ne è esso stesso un effetto. Più avanti nello stesso Seminario, Lacan mette in evidenza anche il fatto che l’inconscio “è un Sapere disarmonico che non dà adito in alcun modo a un matrimonio felice”, tra l’essere parlante e il mondo (nota 18). L’inconscio, infatti, “è parassitario”, ha effetti “patogeni” sull’essere parlante in quanto, a differenza dell’istinto, “il preteso rapporto armonico tra ciò che vive e ciò che lo circonda è perturbato dall’insistenza di tale sapere”. Qualche anno dopo, Lacan chiarirà ancora meglio questo concetto dicendo che l’inconscio è costituito precisamente dagli “effetti di significante” (nota 19).

“È nel modo in cui la lingua è stata parlata e anche intesa per l’uno o per l’altro nella sua particolarità. [...]. È [...] in questo moterialismo che risiede la presa dell’inconscio” (nota 20). 
J.Lacan

Possiamo affermare, quindi, che l’anoressica, mangiando niente, enuncia il suo “per me pochissimo” in quanto rifiuta il moterialismo del proprio inconscio, i suoi effetti di reale che sono anche i suoi punti di impossibile. 

Se torniamo alla frase di Lacan che qui ci interroga, possiamo notare, inoltre, che il rifiuto anoressico risponde, per così dire, a un elemento ineludibile, di struttura: come dice Lacan nel Seminario, “C’è del sapere che, per quanto non vi sia nessun soggetto che lo sa, continua ad essere del Reale. È un deposito, un sedimento.” (nota 21). Il moterialismo dell’inconscio, quindi, è il sedimento che una lingua, la lalingua, lascia sul soggetto, è un deposito nel senso di un accumulo (di materiali) per sedimentazione ed è, al tempo stesso, particolare ad ognuno e assolutamente imprevedibile. Lacan segnala anche che, rispetto al sapere inconscio, l’essere parlante non prova nessun desiderio di sapere, ma bensì ha orrore di sapere, non vuole sapere nulla di questo sapere-sedimento che ha degli effetti su di lui. L’orrore di sapere, quindi, è di struttura in quanto il non-rapporto è la struttura stessa, sia nel senso che non esiste una formula per scrivere il rapporto sessuale, il rapporto tra uomo e donna, sia nel senso che non esiste l’Altro dell’Altro. Come ha spiegato J.-A. Miller a Comandatuba, “i sintomi sono sintomi del non-rapporto sessuale” e il sessuale è ciò che fa buco nel sapere (nota 22). Il rifiuto di mangiare, quindi, è una manifestazione particolare dell’orrore di sapere: non tanto del sapere bucato della struttura (a cui, in genere, si giunge solo dopo aver acconsentito a un percorso di analisi), quanto al sapere in quanto viene attribuito all’Altro. Mentre per Lacan, infatti, il sapere “è un’invenzione” che viene a coprire il buco della struttura, per l’essere parlante il sapere è anzitutto il sapere dell’Altro, quello che gli attribuisce e che, proprio per questo, diventa anche il godimento dell’Altro. All’Altro supposto pieno di sapere e di godimento, il soggetto anoressico risponde con un rifiuto che serve precisamente a scoraggiare il suo desiderio di sapere. Come comprendere, però, questo particolare rifiuto?  

Nel 1997, durante il suo corso dell’Orientamento lacaniano, J.-A. Miller, parlando dell’anoressia e della bulimia, ha sottolineato che

“quello che è in primo piano nell’anoressia, è per l’appunto il rifiuto, della madre nutrice, ma, più estesamente, il rifiuto dell’Altro, del grande Altro. E quindi, in questa sistemazione rapida, avevo la tendenza a porre la bulimia sul lato dell’alienazione e l’anoressia sul lato della separazione” (nota 23).
  J.-A. Mille

Come indica Lacan nel suo Seminario XI, la separazione si produce quando il bambino incontra l’enigma del desiderio dell’adulto e, di fronte alla mancanza dell’Altro, risponde offrendo la propria mancanza, che può prendere la forma della propria scomparsa: “Il fantasma della sua morte, della sua scomparsa è il primo oggetto che il soggetto ha da mettere in gioco in questa dialettica, e lo mette in effetti – e lo sappiamo da mille fatti, non fosse che dall’anoressia mentale” (nota 24). Dieci anni dopo, però, le riflessioni di Lacan sull’anoressia mettono in evidenza piuttosto un rifiuto che annulla la mancanza dell’Altro, facendo esistere un Altro pieno, e, soprattutto, che è teso a non voler sapere nulla dell’inconscio in quanto sapere disarmonico, sapere del non-rapporto sessuale, mai padroneggiabile. La pratica anoressica, quindi, produce un effetto di separazione – tramite il rifiuto dell’Altro – e un effetto di nominazione che la rende molto prossima alla pratica del tossicomane (nota 25).

Per comprendere meglio l’elaborazione di Lacan, presenterò brevemente due casi clinici. A. è una giovane donna di quasi quarant’anni, che da poco ho cominciato a seguire. Di recente è stata nuovamente ricoverata in ospedale perché la sua magrezza la mette in pericolo di vita. Il suo discorso, per il momento, è interamente preso dentro la lotta – che per la paziente è stata anzitutto una sfida rivolta al padre – tra quelli che lei ritiene siano i suoi principi morali e quello che, invece, dovrebbe fare per dare spazio anche ai bisogni più naturali, dalla fame ai piccoli piaceri di tutti i giorni. Il discorso della paziente è chiuso dentro un vero e proprio circolo vizioso, quello dell’“ipercontrollo”: A. sa, quali sono le regole etiche – che, a suo dire, sono dettate dalla sua identificazione alla rinuncia – che la guidano e che hanno “preso il sopravvento” ma sa anche che, con “la sua malattia”, lei vuole “scorporare il godimento dalle cose”. Ha scritto un breve testo sull’anoressia, che vorrebbe pubblicare per “farsi l’icona dell’anoressia”; afferma con assoluta nonchalance di essere “sposata con l’anoressia” e il recente ricovero in ospedale, oltre ad aver evacuato le poche manifestazioni d’angoscia da lei provate, ha prodotto un’identificazione “felice” a un nuovo significante: ora A. è una paziente “cronica”! In questo caso, si vede bene come il sapere sul cibo, sulle regole etiche e sui piaceri proibiti serve precisamente ad evacuare il sapere inconscio attraverso un sapere pieno, controllato, costruito a partire dalla sua pratica anoressica: in questo senso, A. “si lascerebbe morire di fame”, piuttosto che accogliere il sapere inconscio e con esso la contingenza, l’incontro imprevisto, e quindi reale.  Perché una cura abbia inizio, è necessario, pertanto, fare un buco in tale sapere per far emergere il sapere inconscio di cui A., per il momento, non vuole sapere nulla. 

Nel caso di un’anoressia psicotica, questo legame tra “niente cibo” e sapere è molto evidente e, in genere, nefasto. V., infatti, è ossessionata da vari pensieri relativi al cibo: si preoccupa se mangerà, se avrà fame all’ora in cui, di solito, riesce a introdurre del cibo nel suo corpo; si preoccupa di sapere se la madre mangia e che cosa mangia. A questi pensieri si aggiunge il sapere “alimentare” somministrato dal Centro nutrizionale che l’ha in cura e che sostiene la sua credenza nell’esistenza di un “rapporto normale con il cibo”. In realtà, più la paziente è ossessionata dal suo interrogarsi sulla fame e meno riesce a mangiare: come lei dice, il suo rapporto con il cibo “è troppo ragionato”. Benché il pensiero di cosa mangerà la madre non la preoccupa più così tanto (prima scansione), la paziente sta ancora cercando il suo aggiustamento particolare tra l’anoressia, il sinthomo che si sta costruendo e il suo Altro. Per ora, ha deciso di lasciare la casa materna per andare a vivere da sola, si impegna in attività che l’appassionano e cerca, con difficoltà, di pensare meno alla sua difficoltà con il cibo. In questo caso, il nostro compito è piuttosto quello di sostenere la paziente nella costruzione di un sinthomo che, per lei, sia meno devastante e mortifero. 

La clinica dell’anoressia contemporanea, da cui emerge una preponderanza dell’oggetto, un difetto nel registro simbolico e un’identificazione “di ferro” a una pratica di godimento, ci obbliga, per produrre degli effetti analitici, ad essere più che mai fedeli all’ultimo e all’ultimissimo insegnamento di Lacan. Come ha spiegato di recente J.-A. Miller, infatti, l’operazione analitica “fa passare l’inconscio dal reale al simbolico, [...] fa passare l’inconscio dalla verità alla menzogna” (nota 26), all’inconscio transferale necessario per circoscrivere, con qualcuno che si presti ad occupare il posto del sembiante di oggetto, il reale proprio di ognuno. In questo senso, facciamo nostre quelle che F.-H. Freda ha indicato come le “responsabilità dello psicoanalista”, ovvero: produrre “il passaggio dal soggetto inserito nell’oggetto al soggetto disinserito nel significante” avendo come “obiettivo di lavoro l’inserimento del soggetto nell’inconscio” (nota 27). In altri termini, si tratta di accompagnare il paziente-soggetto nell’esperienza di parola che è l’analisi affinché la sua relazione privilegiata con l’oggetto mostri la sua vera faccia: l’oggetto serve a tappare il buco di struttura, il significante che manca, che è il reale stesso prodotto dal linguaggio.

1  J. Lacan, Le Séminaire. “Les non-dupes errent”, 1973-74, (inédit).
2  Ivi, cours du 9 avril 1974.
3  E. Kris, “Psychologie du moi et interprétation dans la thérapie psychanalytique” (Cas dit de “L’Homme aux cervelles fraîches” (tradotto dall’inglese), in The Psychoanalytic Quarterly, XX, 1, janvier 1951, pp. 15-30.
4  J. Lacan, “La direction de la cure et les principes de son pouvoir”, Ecrits, Seuil, Paris, 1966, p. 599.
5  Ivi, p. 600.
6  Si legga, in relazione al caso di Kris de “l’uomo delle cervella fresche”, la bella descrizione di J.-P. Lucchelli, Le transfert de Freud à Lacan, PUR, Rennes, 2009, pp. 140-142.
7  Ivi, p. 601.
8  Nei “Complessi familiari”, Lacan parlava già di “sciopero della fame”. Cfr. J. Lacan, (Complexe de sèvrage).
9  J. Lacan, Le Séminaire. Livre IV, La relation d’objet, Seuil, Paris, 19 ??, pp. 184-185.
10 J. Lacan, “La direction de la cure et les principes de son pouvoir”, op. cit., p. 628.
11 J. Lacan, “Conferenze sull’etica della psicoanalisi”, ne La Psicoanalisi, n. 16, Astrolabio, Roma, 1994, p. 36.
12 J.-A. Miller, Choses de finesse en psychanalyse, Cours de l’Orientation lacanienne, cours du 4 mars 2009 (inédit).
13 A riguardo, si veda J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVII. L’envers de la psychanalyse, Seuil, Paris, 1991, pp. 84-85 e p. 107 e D. Cosenza, “Anoressia”, in Gli oggetti a nell’esperienza psicoanalitica, Quodlibet Studio, Macerata, 2008, pp. 40-43.
14 J. Lacan, “Fonction et champ de la parole et du langage en psychanalyse”, Ecrits, op. cit., p. 258.
15 Ibidem.
16 J. Lacan, “Les non-dupes errent”, op. cit., cours du 11 juin 1974.
17 Ivi, cours du 11 décembre 1973.
18 Facciamo notare che, nel 1975, Lacan utilizza il termine “matrimonio” anche a proposito della droga. Cfr. J. Lacan, Discours de clôture aux Journées des cartels, in “Lettres de l’École Freudienne de Paris”, n. 18, avril 1976.
19 J. Lacan, Le Séminaire. “L’insu que sait de l’une-bévue s’aile à mourre”, cours du 11 janvier 1977 (inédit).
20 J. Lacan, “Conférence à Genève sur le symptome”, 04.10.1975, Le bloc-notes de la psychanalyse, n. 5, 1985, p. 5.
21 J. Lacan, “Les non-dupes errent”, op. cit., cours du 12 février 1974.
22 J.-A. Miller, “Une fantasie”, in Mental, Paris, 2005, n. 15, pp. 9-27. 
23 J.-A. Miller, L’Autre qui n’existe pas et ses comités d’éthique (1996-97), Cours de l’Orientation Lacanienne, cours du 21 mai 1997 (inédit).
24 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, Seuil, Paris, 1973, p. 195.
25 Cfr. F.H. Freda, Psicoanalisi e tossicomania, Bruno Mondadori, Milano, 2001.
26 J.-A. Miller, Choses de finesse en psychanalyse, op. cit., cours du 21 janvier 2009.
27 F.-H. Freda, “Responsabilités du psychanalyste”, ne La Lettre mensuelle, n. 277, Paris, avril 2009, p. 18.