“L’indicibile in psicoanalisi e in poesia”

Intervento tenuto durante l’incontro di poesia “I'epifania itinerante mito modernista”

21.03.2015 presso l’ex osp. Psichiatrico S. Martino di Como.

Sono felice di essere qui, in questo bosco delle parole dimenticate, luogo dell’ex ospedale psichiatrico di Como a parlare di psicoanalisi e poesia perché questi due “discorsi” condividono un elemento di struttura che li differenzia nettamente dalla psichiatria. Sia la psicoanalisi che la poesia, infatti, partono in un qualche mododal non sapere, o meglio da un sapere che non si sa di sapere, ovvero l’inconscio, non negandolo, ma includendolo e rendendolo così il motore, la molla della creazionelinguistica, nell’esperienza della psicoanalisi e anche nella poesia. La psichiatria, invece, forse perché (paradossalmente) ha paura della follia, sempre più spesso cerca nei sintomi una conferma del suo sapere, universitario e ora anche scientifico. Lo si vede bene con i vari DSM, i Manuali diagnostici e statistici dei disturbi mentali: vi si trovano diverse classifiche di sintomi e di sindromi, mentre manca una visione d’insieme e complessa del caso singolo (cosa che si trovava nella psichiatria classica). In psicoanalisi, invece, come ha indicato per primo Freud, ogni caso deve essere accolto ed ascoltato come se fosse sempre nuovo (Bion diceva addirittura che l’analista deve essere senza memoria), al di là del sapere che lo psicoanalista deve comunque avere. Questo è necessario per poter cogliere la particolarità, unica, del singolo caso... Lo psicoanalista, quindi, come il poeta deve lasciare spazio alla sorpresa, al non-saputo, al nuovo... e, di conseguenza, all’indicibile. La psicoanalisi, inoltre, come la poesia, mette al centro della sua pratica la parola e il linguaggio, non il farmaco, il fenomeno o la patologia a cui viene identificato il paziente. Lo psicoanalista francese Jacques Lacan, nel corso del suo lungo insegnamento, sin dal suo scritto del 1953 “Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi”, si è interrogato su cosa significhi parlare, sugli effetti della parola, sulla funzione dello scritto e, ovviamente, su come incidere sui sintomi a partire dalla parola. 

Cosa dire e come parlare, però, dell’indicibile in psicoanalisi e in poesia? In un testo consacrato alla scrittriceMarguerite Duras, Lacan scriveva che:

“[...] l’unico vantaggio che uno psicoanalista ha il diritto di trarre dalla propria posizione, sempre che gli venga riconosciuta come tale, è quello di ricordarsi con Freud che l’artista, nella sua materia, lo precede sempre, e che pertanto non deve fare lo psicologo laddove l’artista gli apre la strada”.1
J.Lacan

Non si tratta, quindi, di fare la psicologia dell’arte o della poesia, poiché il poeta e l’artista, precedono l’analista, arrivano cioè a cogliere prima di lui delle verità che concernono l’essere umano e il suo rapporto con il linguaggio e con il godimento. Ed è da questa posizione di analista che impara dalla poesia, quindi, che vorrei provare a dire qualcosa sull’indicibile in psicoanalisi e in poesia. 

Anzitutto, vorrei cominciare citando una poesia di Ungaretti che scrive: 

COMMIATO 2.10.1916 

“Poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento 

Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso” 

La poesia, quindi, è il fiore della parola che, al tempo stesso, trasforma il mondo, l’umanità, la vita facendone qualcos’altro. Ciò che specifica l’uomo, ciò che lo rende umano, secondo Ungaretti, è precisamente il “fiore della parola”, che è ben diverso dalla parola codificata, usata e abusatadei discorsi contemporanei costituiti, quelli del capitalismo, della scienza o anche del sapere in genere. La lingua, infatti, è il frutto di una maturazione che si cristallizza nell’uso – una parola, un modo di dire entra nell’uso comune e poi si cristallizza... - la poesia, invece, fa obiezione e talvolta persino violenza a questo uso codificato, alla cristallizzazione della lingua, rendendola viva. E’ la poesia che dà vita e che vivifica, creandola, la lingua. In questo senso, mi sembra possa essere inteso il “fiore della parola”, cioè l’organo in cui si riproduce il seme ma che, come la rosa diAngelus Silesius, “è senza perché” ed è questa la sua forza eretica e, come direbbe Tomaso Kemeny, di battaglia contro il Brutto.... Per sovvertire la lingua codificata è necessaria, però, come ci dice Ungaretti, la “limpida meraviglia di un delirante fermento”: solo un discorso altro, che “esce dal solco” stabilito (come ci indica l’etimologia del verbo delirare), permette la florescenza di quella “limpida meraviglia”, che è la poesia. 

“Tra un fiore colto e l’altro donato
L’inesprimibile nulla” 

La parola poetica, ci dice ancora Ungaretti, è scavata nel silenzio, come un abisso; è estratta dal silenzio, dal silenzio del nulla che, per il poeta, è il luogo dell’indicibile. E’ interessante notare il fatto che Ungaretti non dice che il suo silenzio è un abisso, ma usa la “comparazione” per inserire la distanza estetica, necessaria per la creazione poetica. Forse l’abisso vero, quello reale, ha avuto modo di incontrarlo in guerra... in poesia è un’altra cosa. Ad ogni modo, l’inesprimibile è il nome nuovo che Ungaretti dà all’indicibile e che contiene nel suo “espri”(t) il seme e la forza di tutta la sua poesia. In questo “espri” c’è il ritmo della sua lingua, il suo modo particolare di abitare (e di saperci fare con) la lingua italiana. L’esperienza della psicoanalisi ci insegna che ogni essere parlante nasce nel mare del linguaggio, o meglio della lingua (materna o meno), che ne è impregnato ancora prima di venire al mondo, e che questo lo costituirà come soggetto. Lacan dirà persino che siamo tutti “troumatisé”, traumatizzati dal linguaggio, è questo il primo trauma (non quello della nascita), è il fatto che il linguaggio, da un lato trasforma l’organismo vivente in un corpo umano e, dall’altro, produce effetti di “godimento” – da intendersi anche come effetti di sofferenza, non solo come effetti di piacere – sul corpo (nell’isteria) e/o nel pensiero. Dall’ascolto dei pazienti in analisi, risulta evidente che ogni soggetto risponde al trauma primigenio del linguaggio trasformando la lingua materna in una sorta di “lingua privata”, che è il suo modo particolare di abitare il linguaggio ma che non è privo di sofferenza. Il poeta, invece, trasforma il trauma del linguaggio facendone qualcos’altro: il cuore, l’origine stessa della sua creazione linguistica. Anche nel suo caso il linguaggio ha effetti di godimento ma, a differenza del nevrotico o dello psicotico, la sua è una lingua privata che si apre al mondo, all’Altro del simbolico e all’Altro della poesia, e, soprattutto, che lo colloca in una posizione unica. Il poeta, infatti, lavora sul linguaggio e lo crea, lo abita in modo creativo e personale, non lo subisce come qualcosa che parassita il suo corpo o il suo pensiero. In questo senso, l’esperienza dell’analisi può aiutare ad abitare diversamente il linguaggio, può aiutare a capire cosa significa parlare, e quali effetti produce su ogni singola persona... 

Ritornando alla questione dell’indicibile, potremmo dire che il silenzio, in quanto nucleo generativo della poesia, si colloca al cuore stesso del trauma prodotto dal linguaggio. Per questo, può essere interessante interrogare il poeta che, come ci indica Kemeny in un suo bell’articolo del 1994, ha definito la Musa Moderna, la musa della modernità, come la “musicista del silenzio”, ovvero Stephane Mallarmé. Per Mallarmé, l’indicibile si collocain quello che lui chiamava il “défaut des langues”, il difetto delle lingue. Le lingue, cioè, nonostante i loro vocabolari, le loro sintassi, le loro regole, ecc.. contengono un difetto, non sono mai complete, non sono mai tutte... Per questo sono vive, per questo sono sempre in movimento. E’ sempre possibile, cioè, inventare un termine nuovo, mentre un altro si perde con l’uso.... In questo senso, Mallarmé ha colto, anticipandolo, quello che Lacan, cento anni dopo, ha cercato di formalizzare a partire dall’esperienza dell’analisi, e cioè il fatto che la lingua è “non-tutta”. L’espressione “non-tutta” è da intendersi non come un limite – la lingua è incompleta, quindi limitata – ma nel senso opposto, dell’illimitato – c’è sempre una parola o un’espressione nuova che può aggiungersi al vocabolario. Questa cosa può sembrare un’evidenza, ma non lo è affatto... la lingua, infatti, è tutta per chi non si interroga su di essa e, quindi, spesso è parlato dai linguaggi comuni, quelli dei mass-media e ora anche dei social network. 

Il difetto delle lingue, quindi, fa parte della struttura stessa delle lingue, è strutturale ed è ciò che permette alla poesia di esistere: le Vers – scrive infatti Mallarmé - rémunère le défaut des langues. Il Verso, cioè, per lui remunera il difetto delle lingue enumerando....(per così dire) con la creazione dei significanti, con l’uso delle figure retoriche e la ripetizione variata dei suoni, sino a giungere a quella che, per il poeta francese, è l’ambizione della poesia e cioè la “Notion pure”. La “notion pure” è il significante che utilizza Mallarmé per esprimere, non la cosa o il fenomeno in sé, ma il modo in cui il poeta stesso ne è implicato. E’ il significante che introduce, al di là del senso e quindi del significato specifico di un termine o del referente reale a cui si riferisce, la x, l’enigma, della significazioneovvero, in termini più linguistici, la connotazione... La “notion pure” include cioè il luogo da cui egli scrive. Dal difetto delle lingue, quindi, fiorisce tutta la sua poesia.Il poeta, in altri termini, si nutre di tale mancanza/difetto nella lingua per renderla feconda di altri significanti. 

Questo difetto, quindi, non è negativo, anzi è la nostra ricchezza.. forse la sola ricchezza che abbiamo. Lacan - nel corso del suo lungo insegnamento e sempre a partire dall’esperienza della psicoanalisi – dà diversi nomi (li inventa come un poeta) a questo difetto: è il significante che manca all’Altro del simbolico (s /A), è il buco della struttura simbolica e, da ultimo, è quello che lui chiama “il reale”, opponendolo ed annodandolo al simbolico e all’immaginario per rappresentare l’essere parlante. Il poeta, dice infatti Lacan, « checché ne sappia, e anche se non lo sa, reintroduce pertanto il fatto che quello che sa e che manipola è la struttura del linguaggio e non semplicemente la parola. (..) reintroduce la topologia del bordo e l’articolazione della struttura ». La topologia del bordo significa che la struttura del linguaggio, dal punto di vista psicoanalitico, ha la forma di un bordo che include un buco, ed è da questo buco che il poeta lavora sulle parole e che le crea. La poesia, quindi, è quella pratica che riesce a dare un nome o diversi nomi a questo punto di mancanza, a dare un nome a quello che, in termini lacaniani “ non cessa di non scriversi”. Freud lo aveva chiamato l’“ombelico del sogno”, ovvero il punto cieco che non si può esprimere ma che non cessa di esistere, che si ripete, senza parola. Ogni poeta che lavora sulla linguaha il suo modo di nominarlo e, in genere, è attorno a questo buco che si genera la sua opera poetica. 

Mallarmé, ad esempio, dà a questo indicibile il nome di Azur... 

« Je suis hanté. L’Azur! l’Azur ! l’Azur ! » 
Mallarmé

« Sono ossessionato. L’Azzurro! L’Azzurro! L’Azzurro”. Dove l’azzurro viene a dire la parola che manca al vocabolario, il suono stesso dell’indicibile che, inoltre, grazie a una sinestesia, indica un colore che odora di infinito. La parola che manca al simbolico secondo Mallarmé, quella che lo ossessiona, è un suono colorato, l’Azur. Nel caso di Mallarmé, questo punto di mancanza e, quindi, di ricominciamento, in quanto non cessa di non scriversi, secondo il linguista Jean-Claude Milner“risiede nella fonia stessa, che si tratta di spogliare di quello che ha di utile per la comunicazione, vale a dire di distintivo: non più di purezza di senso, ma la sfaccettatura moltiplicata dell’omofonia”. Per Mallarmé, quindi, la via per raggiungere e per tentare di dire questo indicibile è quella della voce (per altri poeti può essere altro) e delle sue potenzialità omofoniche.Come scriveinfatti Mallarmé, è la parola, il significante, che « crea le analogie delle cose attraverso le analogie dei suoni, è la fonia che importa di più al poeta per designare delle cose ». In un certo senso, potremmo dire che scrivere l’indicibile, per ogni poeta, significa riconoscere e dare voce al proprio ritmo, che è il movimento “interno e vuoto” – la voce afona – che, per ogni soggetto, si riempie di suoni diversi, talvolta di frasi... Il ritmo soggettivo, quindi, non è legato al senso, alla comunicazione di quello che si vuole dire, ma piuttosto all’ambito del non-senso vale a dire a livello del significante inteso nel suo statuto di lettera e del godimento che esso veicola. Per questo motivo, il “senso poetico”, secondo Lacan, è un’obiezione al senso: non risponde cioè solo alla logica del senso, ma anche e soprattutto a quella del significante, sempre ambiguo, alla logica del suono e, quindi,a quella del silenzio. Così Lacan dice anche che la poesia è “effetto di senso ed effetto di buco”... oltre al senso, veicolato dalle immagini scritte e descritte, essaconvoca la mancanza dell’Altro, il buco della struttura del linguaggio da cui si origina. 

Anche nell’esperienza analitica, al di là del lamento generico sul proprio sintomo o su quello che fa soffrire (ad esempio “soffro di attacchi di panico”), è importante che l’analista aiuti il paziente spingendolo a “dire bene” (questa è, secondo Lacan, l’etica della psicoanalisi) di cosa si tratta realmente, perché la sua sofferenza non è mai uguale a quella di un altro... E’ importante, cioè, aiutarlo a cercare di dire meglio il suo indicibile... Per fare questo, suggerisce ancora Lacan, l’analista non deve capire troppo in fretta con la sua teoria, il suo sapere o la sua pretesa esperienza. Solo se, paradossalmente, accetta che ogni paziente sia un mistero, “il mistero del corpo parlante”, egli può permettergli di accostarsi e di dire, seduta dopo seduta, il suo indicibile, quello cioè che lo rende unico. Non è una cosa facile, però, ”sapere non sapere”; in effetti, per riuscire a farlo è necessario un lungo percorso di formazione. Lacan parlava addirittura di una sorta di ascesi.Per fare questo, ad ogni modo, è necessario dare valore non solo al senso di quello che il paziente dice, ma anche al significante scelto per dirlo e soprattutto a come lo dice, alla sua enunciazione.... È necessario, cioè, cogliere e fare spazio anche alla risonanza del suo dire, così come ancora oggi risuonano qui le “parole dimenticate” scritte su queste betulle e circondate dal silenzio del bosco.... 

1 J. Lacan, Omaggio a Marguerite Duras, del rapimento di Lol V. Stein, in Altri Scritti, Einaudi, Torino 2013, p. 193.