“Siccome ciascuno pensa nella sua lingua, o in quella che gli è più familiare, così ciascuno gusta e sente nella stessa lingua le qualità delle scritture fatte in qualunque lingua.”
Leopardi, Zibaldone, 963, 20-22 aprile 1821
La psicoanalisi da sempre si occupa degli effetti della lingua sull’essere parlante, ma di quale lingua si tratta? Della madre lingua e non solo… già Freud, infatti, ha messo in valore il fatto che l’inconscio, nel suo lavoro di cifratura, può servirsi anche di lingue straniere che, in un modo o nell’altro, hanno prodotto, talvolta attraverso l’equivoco, effetti nel corpo del parlante: effetti di senso, ma soprattutto, effetti di godimento. L’inconscio, infatti, ha la sua grammatica e traduce, come può, e con quello che trova a sua disposizione. L’inconscio, infatti, traducendo interpreta, come segnala J.-A. Miller.
Al contempo, per la psicoanalisi in quanto esperienza di parola – dopo averla incontrata o per farsi insegnare da essa – in molti e in molte hanno viaggiato, attraversato frontiere e scommesso sulle risonanze delle lingue per elaborare, per portare alla luce e per circoscrivere quello che è il proprio reale, anzitutto cercando di metterlo in parole. Si tratta, anche in questo caso, dell’atto di tradurre, termine che deriva dal latino traducĕre e che significa “far passare”, “trasferire”, “condurre” (ducere) al di là (trans). Un vero e proprio lavoro… mosso dal transfert e dal desiderio di ben dire.
Secondo Antonio Prete, saggista, poeta e grande traduttore di Baudelaire e di altri poeti di lingua francese, la traduzione è “un lavoro di formazione, e di conoscenza. Un atto di crescita”,[1] in cui la ricchezza delle lingue apre a nuovi mondi, in altri termini al nuovo. “Ogni lingua”, scrive, “sembra attendere il transito in una nuova lingua per potersi rinnovare”. È la sfida e il compito dei poeti…
Nel 1973, Lacan sottolinea piuttosto l’aspetto di perdita che la traduzione implica: “è sempre una riduzione e c’è sempre una perdita nella traduzione. Ebbene, in realtà ciò di cui si tratta è che si perda. Si tocca con mano, non è vero, che questa perdita è il reale stesso dell’inconscio, il reale stesso. Il reale per l’essere parlante è che si perde da qualche parte, e dove? È qui che Freud pone l’accento, si perde nel rapporto sessuale”.[2] Ma è proprio perché non c’è rapporto sessuale, proprio perché c’è una perdita che può realizzarsi, in atto, quel tentativo impossibile della traduzione, il cui destino è il tradimento. Ciò che, infatti, obietta alla traduzione da lingua a lingua è propriamente lalingua, vale a dire la lingua (materna) con il suo carico di godimento che corrisponde, come indica Miller, nel suo corso “Tout le monde est fou”, allo “stato liquido della parola”[3]. La “parola liquida” non ha nulla a che vedere con la struttura del linguaggio, essa è piuttosto dell’ordine del corpo, degli affetti che il corpo prova, degli eventi di corpo che lo mobilitano, come una secrezione.
Nell’intervista che Omar Battisti ha fatto ad Olena Samoilova e nei due testi che seguono, è possibile cogliere qualcosa dell’impossibile che la singolarità di ogni lalingua porta con sé. È possibile percorrere, inoltrarsi nei vuoti, circoscrivere la perdita, che, però, permette anche l’invenzione, la soluzione inaspettata e un’apertura. “L’analisi”, infatti, dice ancora Lacan, “è il polmone artificiale grazie a cui si cerca di assicurare ciò che bisogna trovare come godimento nel parlare affinché la storia continui”.[4] Monito che, in questi tempi bui di guerre e di violenze, è più che mai necessario….
[1] A. Prete, All’ombra dell’altra lingua. Per una poetica della traduzione, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, p. 12.
[2] J. Lacan, « Le jouir de l’être parlant s’articule », La Cause du désir, n. 101, 2019, p. 12.
[3] J.-A. Miller, “Psychanalyse en immersion », La Cause du désir, n. 106, 2020, p. 26.
[4] J. Lacan, « Le jouir de l’être parlant s’articule », op. cit., p. 13.