“La Wunderkammer dell’analista: Lacan con l’Arcimboldo”

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“Il viso altrui si ben ne rappresenti/

Che ‘n dubbio stassi, qual sia il finto, o ‘l vivo”

 

Sonetto di G. A da Milano

 

Nel suo Seminario VIII consacrato al transfert, in un capitolo eccezionale per l’abbondanza dei riferimenti alla storia dell’arte, Lacan, dopo aver citato Jacopo Zucchi – di cui aveva già parlato qualche lezione prima – ci presenta un artista italiano che, per molto tempo, ha destato stupore e meraviglia, talvolta addirittura disagio e fastidio, vale a dire l’Arcimboldo.

Mentre lo Zucchi viene utilizzato da Lacan per render conto della funzione del fallo, “simbolo […] innominabile”,[1] che si pone proprio laddove manca il significante, per mostrare cioè che dietro il bel vaso di fiori non c’è niente, il riferimento all’Arcimboldo ci porta in altro ambito, molto diverso, che sarà sviluppato nell’ultimo insegnamento di Lacan. Come indica Lacan a proposito del mazzo di fiori messo in primo piano nel quadro “Amore e Psiche” dello Zucchi, la “sua presenza ha lo scopo di ricoprire ciò che va ricoperto, e di cui vi ho detto che non è tanto il fallo minacciato dell’Eros […] ma piuttosto il punto preciso di una presenza assente, di un’assenza presentificata”.[2] Il fallo, infatti, funziona come barra e come “velo su cui si dipinge l’assenza”[3], come il sembiante per eccellenza che viene sul niente che non c’è ma che, nel quadro, è proprio ciò che attira lo sguardo, il punto cieco verso cui si guarda.

Lacan, però, non si ferma qui: si interessa al sembiante nella sua concretezza, vale a dire al vaso di fiori che, secondo alcuni critici d’arte, è stato apposto sul quadro solo successivamente, come una toppa o un copri-pudenda, da un parente dello Zucchi, e che assomiglia – per il realismo e l’accuratezza dei suoi dettagli – ai lavori di un altro pittore italiano, ovvero l’Arcimboldo. A quanto mi risulta, questa è l’unica occasione in cui Lacan parla dell’Arcimboldo nel suo insegnamento. E cosa ne dice? Afferma che questo autore “si distingue per una tecnica singolare”[4] che ha influenzato anche Salvador Dalì per i suoi disegni paranoici, e i surrealisti in genere. Benché sia annoverato fra i manieristi per l’epoca in cui lavora, l’Arcimboldo se ne differenzia: “dovendo, per esempio, rappresentare la figura del bibliotecario di Rodolfo II […] lo fa mediante un sapiente accatastamento degli utensili primari delle funzione di un bibliotecario, ossia di libri, disposti nel quadro in modo da imporre, più che suggerire, l’immagine di un volto”.[5] Quello che contraddistingue l’opera dell’Arcimboldo, secondo è proprio la sua capacità di “realizzare l’immagine umana nella sua figura essenziale tramite la coalescenza, la combinazione, l’accumulazione di un mucchio di oggetti la cui somma dovrà rappresentare qualcosa che si manifesta quindi al contempo come sostanza e come illusione”[6]! Non si tratta, quindi, più solo del velo dell’illusione, ma bensì della consistenza del velo, della sua sostanza materiale che coesiste con la sua illusione. E in effetti, questa è l’invenzione che rende l’Arcimboldo unico nel suo genere ed estremamente attuale.

Ma chi è l’Arcimboldo? Giuseppe Arcimboldi, nato a Milano nel 1526, è figlio del pittore Biagio Arcimboldi, erede di una famiglia patrizia che annovera tra i suoi membri anche alcuni arcivescovi milanesi, e dal 1562 pittore di corte, prima a Vienna e poi a Praga, presso l’Imperatore Massimiliano II e in seguito presso il figlio Rodolfo II. Viene considerato “l’esponente di un manierismo sofisticato, allusivo, allegorico, che l’artista concretizza nelle sue invenzioni naturalistiche, grottesche, divertenti, nei suoi bizzarri giocattoli costruiti con l’assemblaggio di elementi diversi che formano un’immagine differente dalle sue molteplici componenti originarie”.[7] L’Arcimboldo, infatti, era un fine osservatore della natura – umana e non solo – e anche uno studioso di musica, di alchimia[8] e di altri saperi, che gli hanno permesso di realizzare, oltre ai suoi quadri ed alcune poesie, degli oggetti nuovi e sorprendenti (fra i quali, un sistema crittografico di scrittura[9] e una scala cromatica musicale a partire da calcoli pitagorici[10]), oggetti creati per il divertimento della corte asburgica in cui ha lavorato e, soprattutto, per dare soddisfazione a Rodolfo II, il “re malinconico” che si circondava di fabbricanti di oroscopi, alchimisti, scienziati (fra i quali Keplero), pittori e botanici e che accumulava in modo ossessivo ogni sorta di oggetto, dai più preziosi ai più bizzarri. Come scrive Ripellino, “c’è un intenso rapporto tra i ritratti ibridi dell’Arcimboldo e la Kunstkammer di Rodolfo, gabinetto di naturalia, di rarità e anomalie”.[11]

Nelle opere dell’Arcimboldo anche Lacan mette in valore la presenza di “oggetti, che hanno in qualche modo una funzione di maschera”[12] e che ne mostrano la complessità e la novità, rispetto al manierismo. In effetti, per spiegare il senso e la funzione della maschera, Lacan fa riferimento al termine latino “persona” che, dice, “è sempre in primo piano nell’economia della presenza umana. Vale a dire che, se c’è bisogno di persona, è perché dietro, forse, ogni forma si sottrae e svanisce”.[13] Il termine persona, di origine probabilmente etrusca, significava effettivamente “maschera teatrale” e, in seguito, ha assunto il valore di “individuo di sesso non specificato”, addirittura di “corpo”. Le maschere arcimboldesche, quindi, a partire da un pot-pourri di oggetti, di frutta, verdura, arbusti, fiori o animali vari, identificano il soggetto dipinto, la persona dietro cui “la forma si sottrae”, producendo effetti di sorpresa, di spaesamento e, a quanto scrivono gli specialisti dell’autore, anche di grande divertimento a corte. “Teste composte”[14] che, a seconda della prospettiva secondo cui le si guarda, mostrano ben altro: da un verso un vaso ricolmo di frutta e, dall’altro, il volto di un uomo. Come segnala Barthes, “si direbbe che, come un poeta barocco, Arcimboldo, sfrutti le «curiosità» della lingua, giochi con sinonimia e omonimia”[15], addirittura prenda il paragone “alla lettera”, chiedendo a colui che guarda di ruotare il quadro oppure di spostarsi davanti ad esso per vedere da vicino quello che vi è nascosto. Questa modalità, spiega Barthes, “implica una relativizzazione dello spazio del senso: includendo lo sguardo dello spettatore nella struttura stessa della tela, Arcimboldo passa […] a un’arte einsteiniana, in cui lo spostamento dell’osservatore entra nello statuto dell’opera”[16] e, in questo modo, egli produce un nuovo immaginario tinto di reale.

Al posto dell’idealismo manierista, Arcimboldo – che ha influenzato la nascita della natura morta lombarda e il lavoro di Caravaggio – utilizza il realismo del corpo-maschera per mostrare che, come indica anche Lacan nel suo Seminario XX, l’uomo non pensa con la sua anima – come sosteneva Aristotele – ma con i suoi oggetti, con l’oggetto piccolo a attorno a cui si organizzano i suoi desideri e i suoi godimenti.[17] Come scrive Ripellino, che però non rinuncia alla bellezza ideale del sembiante: “La fantoccesca ricucitura di attrezzi e di volatili e di frutti indica il decadimento della bellezza del Volto, che, rinunziando ad esser sembianza di Dio, si fa laido e morchioso, e si riduce a compendio e dispensa di oggetti, perché l’uomo è schiavo degli arnesi che si illude di manovrare e che lo divorano invece, sino ad invadere le sue fattezze”.[18]

L’analista, a differenza del letterato, sa accogliere gli oggetti per quello che sono, “sostanze episodiche” del godimento che danno “supporto alle realizzazioni più concrete e anche alle realtà più accattivanti”[19]. Nel quadro, ad esempio, le pennellate dell’artista che vengono a dar forma agli oggetti, come indica Lacan, sono “il primo atto della deposizione dello sguardo”[20], qualcosa viene deposto, qualcosa cade e si accumula sul quadro. Per questo motivo lo studio dell’analista, dove si lasciano cadere i significanti identificatori, si depongono i sembianti e gli orpelli fallici, è la Wunderkammer del XX e del XXI secolo, una stanza delle meraviglie in cui può emergere quello che è sempre stato lì, nascosto sotto i bei paramenti, vale a dire il vuoto dell’oggetto e i modi di godimento del parlessere che sempre sono forme dell’eccesso.[21] In questo senso, mi sembra esemplare un autoritratto cartaceo che l’Arcimboldo ci ha lasciato e in cui vi è un oggetto privilegiato, “il foglio di carta”,[22] che sotto forma di strisce di carta crea l’abito, il volto e le linee d’espressione dell’autore stesso (e sul quale sono apposti anche l’età del pittore e la data di esecuzione dell’opera, fatta quando rientra definitivamente in patria), senza dimenticare lo sguardo, punto cieco che guarda altrove. Ci troviamo di fronte a una vera e propria rappresentazione della sua cifra stilistica, passe dell’artista che è riuscito a condurci “al limite in cui [il sintomo] si ripercuote in effetti di creazione”.[23]

 

 

[1] J. Lacan, Il Seminario, Libro VIII, Il Transfert, testo stabilito da J.-A. Miller, edizione italiana a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino, 2008, p. 258.

[2] Ivi, p. 260.

[3] J. Lacan, Il Seminario, Libro IV, La relazione d’oggetto, Einaudi, Torino, 1996, p. 154.

[4] J. Lacan, Il Seminario, Libro VIII, Il Transfert, op. cit., p. 260.

[5] Ibidem.

[6] Ivi, p. 261.

[7] G. Berra, “Arcimboldi e Caravaggio: “diligenza” e “patienza” nella natura morta arcaica”, Paragone, n. 8-9-10, Sansone Editore, 1996, p. 108.

[8] Cfr. M. Proclamato, Arcimboldo, La pittura alchemica dell’immortalità, Melchisedek Edizioni, Torino, 2015.

[9] G. Berra, “L’Arcimboldo «c’huom forma d’ogni cosa»: capricci pittorici, elogi letterali e scherzi poetici nella Milano di fine Cinquecento”, in S. Ferino-Pagden (a cura di), Arcimboldo. Artista milanese tra Leonardo e Caravaggio, Catalogo della mostra a Palazzo Reale 10 febbraio 22 maggio 2011, Skira, Milano, 2011, p. 286.

[10] G. Berra, Ut musica pictura: l’Arcimboldo e la ricerca delle “musicali consonanze dentro i colori”, in S. Ferino-Pagden (a cura di), Arcimboldo. Artista milanese tra Leonardo e Caravaggio, op. cit. p. 357.

[11] A. M. Ripellino, Arcimboldo e il re malinconico, Skira, 2011, Milano, p. 36. Anche il Morigia nella sua Historia dell’antichità di Milano (1592) segnala che l’Arcimboldo fu chiamato a corte da Massimiliano II “non tanto nella pittura ma anco altre sì in molte invenzioni, come de’ torniamenti, giostre, giuochi, apparecchi di nozze et di coronazioni, lasciando stupefatti sia il principale suo signore, sia la corte tutta”.

[12] J. Lacan, Il Seminario, Libro VIII, Il Transfert, op. cit., p. 261.

[13] Ibidem. Si noti che Lacan parla della persona come maschera anche nel suo Seminario, Libro XVIII, Di un discorso che non sarebbe del sembiante, durante la lezione del 9 giugno 1971.

[14] “Per ‘teste composte’ allora definite come ‘bizzarrie’, ‘ghiribizzi, ‘scherzi’, ‘grilli’, cioè stranezze insolite, si devono intendere quei busti che a un primo sguardo appaiono del tutto naturali, ma che in realtà sono costruiti attraverso il sapiente incastro logico di forme diverse, naturali o artificiali”, in G. Berra, “Le teste composte e reversibili dell’Arcimboldo e la nascita della natura morta”, in Arcimboldo, catalogo della mostra tenuta a Palazzo Barberini, 20 ottobre 2017- 11 febbraio 2018, Skira, Milano, 2017.

[15] R. Barthes, Arcimboldo, Abscondita, Milano, 2005, p. 12.

[16] Ivi, p. 41.

[17] Cfr. J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, Einaudi, Torino, 2011, pp. 99-112.

[18] A. M. Ripellino, Arcimboldo e il re malinconico, op. cit, p. 42.

[19] J. Lacan, Lettre écrite à trois psychanalystes italiens: le tripode (aprile 1974), Spirales, 1981, n° 9, p. 60.

[20] J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 2003, p. 112.

[21] R. Barthes sottolinea che “la carne arcimboldesca è sempre eccessiva”, in Arcimboldo, op. cit., p. 47.

[22] G. Berra, “Un autoritratto cartaceo di Giuseppe Arcimboldi”, in Arte lombarda, n. 116, 1996, p. 55.

[23] J. Lacan, “Dei nostri antecedenti”, Scritti, Einaudi, Torino, 2002, p. 62.