“La maschera e la posizione femminile”

ne Il sintomo, Annali della Sezione Clinica di Milano, Edizione La Vita Felice, Milano 2003.

Oggi vorrei, a partire da una questione che mi si è posta, durante la scorsa lezione che Luisella Brusa ha tenuto qui, provare a fare qualche riflessione rispetto alla funzione della maschera e alla posizione femminile. Più in particolare, vorrei provare ad applicare l’algoritmo della sessuazione – vale a dire della soggettivazione del proprio sesso – che Jacques Lacan ha sviluppato nel Seminario IV (nota 1) :

 Apparire     Avere 
Avere    Mascherare

e che, come L. Brusa ha spiegato la volta scorsa, è stato oggetto, da parte di Lacan, di una serie di rimaneggiamenti e rielaborazioni che sono sfociati nell’algoritmo della sessuazione del Seminario Ancora, ai tre destini delle femminilità indicati da Freud. I tre destini sono, lo riassumo brevemente, la rinuncia all’attività fallica (da cui deriva il masochismo femminile e il destino della privazione), il complesso di mascolinità (che corrisponde ad un’identificazione virile) e la via normale che Freud definisce tortuosa. Quest’ultimo destino, indica già – ben prima della teorizzazione di Lacan – che è necessario che ogni singola donna trovi la propria soluzione, quella che meglio le si confà. È interessante notare questa indicazione di Freud in quanto essa si colloca già in quella che sarà la definizione lacaniana del non-tutto femminile, vale a dire del non-tutto soggetto alla logica fallica. Dire, infatti, che la donna non esiste significa affermare il suo carattere assolutamente particolare, non universale. Non esiste una donna che possa rappresentare l’universale de La donna, mentre esistono le donne nel particolare, nel particolare della loro soluzione sintomatica. Ed è sempre a partire dalla logica del non-tutto che J-.A. Miller può dire – nel suo corso La natura dei sembianti (nota 2) – che, delle donne, si può dire tutto e il contrario di tutto in quanto essa rappresenta l’Altro assoluto (nota 3). E, in questo senso, cercherò di dire almeno qualcosa, in particolare, relativamente alla funzione della maschera e al senso che la mascherata femminile assume all’interno della “commedia dei sessi”.  

La maschera e la strega

Il termine “maschera” (il termine francese masque ha la stessa origine) deriva dal latino medievale mascha (strega) e si riferisce a un tema presente nell’area mediterranea. Già allora, quindi, il termine veniva utilizzato per indicare una persona di sesso femminile che, inoltre, aveva dei poteri magici, poteva far apparire quello che non esisteva ma, soprattutto, nascondeva qualcosa di pericoloso, di insopportabile. Tale uso è rimasto ancora nella lingua comune in quanto in francese masque viene utilizzato anche come ingiuria «per qualificare una ragazza, una donna, e rimproverarle la sua bruttezza o la sua malizia» (Le Littré). Lo storico Jules Michelet, nel suo testo La strega (nota 4), comincia la sua analisi di questa particolare figura femminile scrivendo: «“Natura le ha fatte streghe”. È il genio proprio alla Donna, e il suo temperamento. Nasce Fata. Per il normale ricorso dell’esaltazione, è Sibilla. Per l’amore è Maga. Per acume, malizia (capricciosa spesso e benefica), è Strega, e dà la sorte, almeno lenisce, inganna i mali». La maschera, secondo Michelet, però non è solo strega; essa, infatti, indica pure lo schermo sotto cui si può nascondere anche un personaggio incantevole (in questo senso l’autore fa riferimento alle fiabe di “Enrichetto dal ciuffo”, “Pelle d’asino” e “La bella e la bestia”).  La lettura lacaniana della maschera, però, si differenzia nettamente da quella storica o antropologica; la maschera, infatti, secondo Lacan, deve essere maneggiata in quanto essa «smaschera la faccia che rappresenta sdoppiandosi, e la rappresenta mascherandola di nuovo [...] la compone quando è chiusa, e la sdoppia quando è aperta.» (nota 5). La maschera, cioè, rappresenta la divisione soggettiva in quanto tale. 

È interessante notare, inoltre, un particolare slittamento significante che si è prodotto nel corso del tempo: come Lacan ci ricorda nella sua Nota sulla relazione di Daniel Lagache: “Psicoanalisi e struttura della personalità”,

«la persona è una maschera, non è un semplice gioco di etimologia, ma è evocare l’ambiguità del processo per cui la sua nozione è giunta ad acquistare il valore di incarnare un’unità che si affermerebbe nell’essere».(nota 6)
J. Lacan ( Nota sulla relazione di Daniel Lagache: “Psicoanalisi e struttura della personalità”, in Scritti, cit., p. 667.)

Il termine persona, cioè, deriva dal greco prósōpon, “maschera”, vale a dire da una figura che «congiunge due profili la cui unità si regge in quanto la maschera resta chiusa» (nota 7), una figura in grado di dare unità al soggetto, mentre il termine maschera deriva dalla strega, dall’impossibile a dirsi e a mostrarsi. È come se, in un certo senso, il significante, anche nella sua storia, si fosse mosso in direzione del sembiante negando, cancellando dietro di sé, la sua origine reale. 

La maschera e il sembiante 

La maschera, quindi, ci introduce direttamente nel registro del sembiante che, in primo luogo, è una difesa contro il reale. Rispetto al reale dell’Eros primordiale – che Lacan ha tradotto come il Desiderio della Madre – la civiltà si fonda, grazie all’operatività della metafora paterna, sui sembianti, sugli ideali sublimatori che costituiscono la realtà. I sembianti, in altri termini, corrispondono a tutto quanto, nell’esperienza dell’essere parlante, è soggetto in un qualche modo alla logica fallica, alla logica maschile. In effetti, come spiega J.-A. Miller, il sembiante può essere colto a partire dal fallo che Lacan presenta come significante e, nella fattispecie, come significante del desiderio, della mancanza-ad-essere del soggetto. Questo perché «ogni oggetto portato a una funzione significante deve in qualche modo essere desostanzializzato, essere negato, c’è dunque una metafora all’opera in ogni significantizzazione, e il fallo ha il privilegio di essere il significante stesso della significantizzazione, cioè esso è a rigore il significante della barra, è la barra stessa.» (nota 8). Nel Seminario V sulle formazioni dell’inconscio (nota 9), Lacan utilizza spesso il termine «maschera» per indicare tutti gli effetti di metaforizzazione (sostituzione e condensazione) che il significante, il campo dell’Altro, del simbolico, produce sul soggetto quando questi viene al mondo. Il soggetto, com’è noto, è l’effetto di significato del discorso dell’Altro, è il soggetto alienato, diviso in quanto sottomesso da sempre all’ordine del linguaggio. In questo senso, quindi, il significante è sempre sembiante, è la “maschera” mentre il reale è qualcosa di ben diverso, è quello che non si può dire. Per questo nel Seminario V, Lacan sostiene che il sintomo si presenta sotto una «maschera» (nota 10), come qualcosa che deve essere decifrato, che l’oggetto appare nella dimensione della maschera (nota 11), che il desiderio stesso, in quanto legato al significante, è «sempre legato a una certa maschera» (nota 12) a partire dalla quale si produce l’Ideale dell’io e, quindi, dalla quale si origina il processo dell’identificazione. Sempre nello stesso capitolo del testo – che J.-A. Miller ha intitolato “le maschere del sintomo” – Lacan scrive il termine «maschera» sul grafo del desiderio accanto all’algoritmo del fantasma (per l'algoritmo vedi pdf allegato). Il rapporto, per così dire, problematico che il soggetto barrato, il soggetto diviso instaura con l’oggetto causa del proprio desiderio, quindi, oltre a trovare una formazione a livello simbolico (nella forma della frase a cui il fantasma può essere ridotto), si esprime anche a livello dell’immagine nella forma della maschera.  In questo senso Lacan può dire che «ci sarebbero, insomma, tante maschere quante sono le forme di insoddisfazione» (nota 13) e che esiste «una profonda coerenza, coalescenza, del desiderio con il sintomo, della maschera con quello che appare nella manifestazione del desiderio» (nota 14). Per comprendere meglio la funzione della maschera, però, è necessario rifarsi anche al Seminario XI, nel quale Lacan, riflettendo sul significato del quadro, definisce il valore e la funzione che l’immagine del corpo proprio assume per l’essere parlante.

La maschera e l’immagine del corpo 

Per il soggetto, a partire dall’esperienza cosiddetta dello «stadio dello specchio», l’immagine – come Lacan scrive nel Seminario V – ha in quanto tale un carattere di cattura immaginaria. L’immagine dell’altro, del simile, infatti, è legata proprio a questo effetto che deriva dall’«ambiguità che è al fondamento stesso della formazione dell’io e che fa sì che la sua unità sia fuori da lui stesso, che sia rispetto al proprio simile che egli si erige e che trova quell’unità di difesa che è propria del suo essere in quanto essere narcisistico» (nota 15). L’essere del soggetto, quindi, non si trova né nel corpo né nel viso del soggetto ma piuttosto fuori di sé, nell’immagine che l’Altro gli restituisce.

Nel Seminario XI sui concetti fondamentali della psicoanalisi, Lacan scompone l’essere e la sembianza a partire da un esempio preso dal mimetismo animale. A differenza dell’animale, infatti, l’essere parlante non è preso completamente dall’inganno della cattura immaginaria prodotta da qualcosa che è «maschera, doppio, involucro, pelle staccata, staccata per coprire l’intelaiatura di uno scudo» (nota 16). A differenza del mimetismo animale, il travestimento nell’essere parlante mostra come sia

«tramite le maschere che il maschile, il femminile, si incontrano nel modo più acuto, più ardente. Solo il soggetto – il soggetto umano, il soggetto del desiderio che è l’essenza dell’uomo – non è, contrariamente all’animale, interamente preso da questa cattura immaginaria. Ci si orienta. Come? Nella misura in cui egli isola la funzione dello schermo, e ci gioca. L’uomo, infatti, sa usare la maschera come ciò al di là della quale c’è lo sguardo. Lo schermo qui è il luogo della mediazione.» (nota 17)
J. Lacan

 Lo sguardo al di là della maschera, infatti, permette al soggetto di non essere completamente preso dalla cattura immaginaria in quanto l’occhio «è dotato di un potere separativo» (nota 18). Lo sguardo, in quanto oggetto piccolo a, non appartiene al reale ma è anch’esso un sembiante, è il resto dell’operazione di cancellazione della Cosa – del reale della Cosa – che l’azione dell’Altro simbolico, del linguaggio produce sull’essere parlante. 

L’effetto del significante fallico sulla commedia dei sessi, quindi, è quello di introdurre precisamente la funzione del sembiante. Il rapporto sessuale non esiste mentre esistono i suoi sembianti che, sul lato maschile, servono a proteggere l’avere – l’avere il pene – mentre, sul lato femminile, mascherano proprio la mancanza di avere, il non averlo. Nell’uomo, quindi, la soggettivazione del proprio essere sessuato avviene tramite l’“io ho”, tramite quella che J.-A. Miller chiama la logica del proprietario e che, di fatto, coincide con la logica fallica della contabilità, dell’Uno. La «parata» serve, allora, all’uomo per mostrare che egli ha, per sottolineare – per chi ne dubitasse – il valore e la consistenza di questo suo avere. A questo proposito Lacan, nel suo seminario D’un discours qui ne serait pas du semblant (nota 19), fa riferimento a un’osservazione di Lévi- Strauss a proposito dell’azione di «parata» esercitata da quelle che egli ha definito come «strutture» relativamente alla questione dell’amore.  Lacan sostiene che, di fatto, l’Edipo ha il vantaggio di mostrare in che modo – vale a dire attraverso la «parata» – l’uomo può rispondere all’esigenza del «papludun» che è propria dell’essere di una donna. 

La maschera e la posizione femminile

Per quanto riguarda, invece, il “non avere” della donna, la sua mancanza dell’organo fallico, J.-A. Miller sostiene che per lei ci sono solo due soluzioni possibili, vale a dire «acquisire ad ogni costo o diventare il fallo» (nota 20). L’acquisizione di quello che non ha, dell’avere che le manca, nella donna, può avvenire tramite un uomo – al quale si preleva l’organo, lasciandolo castrato e, quindi, bisognoso di cure – o tramite un figlio che, quindi, diventa a tutti gli effetti l’avere della madre. Entrambe queste posizioni, però, come sottolinea J.-A. Miller e questo non dobbiamo dimenticarcelo, restano nel registro dell’avere e non in quello dell’essere, vale a dire in quello dell’identificazione. 

Nel caso della donna che acquisisce l’avere, la donna sopperisce alla propria mancanza di avere che, in un certo senso, viene prima della mancanza ad essere, indossando la maschera di colei che ha: è la donna che si ritiene tale in quanto possiede un uomo, in quanto può dire – ribaltando la formula di Lacan – «Tu sei il mio uomo». In questo modo, però, la donna non entra nel rapporto con l’altro sesso come colei che manca, non accetta l’alterità dell’altro sesso ma lo rende Uno. Rende, per così dire, l’uomo il pezzo mancante che le permette di fare Uno. In quanto pezzo mancante, ma, evidentemente, necessariamente presente, il destino di questo partner non può essere altro che quello del partner-sintomo, vale a dire del sintomo (partner) che viene a colmare (per quanto possibile) la divisione soggettiva, che permette alla donna – per mezzo dell’avere – di non assumerla, che le permette di non assumere il suo, come dice Lacan, essere Altra rispetto persino a se stessa. In quanto sintomo, però, questo tipo di legame costituisce un «modo di godimento» specifico del soggetto femminile, autistico, che non la fa uscire da sé per incontrare l’altro sesso. Ci troviamo ancora, quindi, nel registro del godimento fallico, del godimento dell’avere, del godimento dell’Uno

Nel caso, invece, in cui l’avere prende le fattezze del figlio, il figlio viene ad occupare proprio – come dice Lacan – il posto del fallo che manca alla donna. Così, la madre è la donna che ce l’ha, che non manca di avere. Anche in questo caso, come si può facilmente immaginare, il destino del partner sessuale non è dei più felici e lo stesso vale per il “rapporto amoroso”. Il bambino viene a fare da supplenza a un dato di struttura che è l’inesistenza del rapporto sessuale mentre la maschera della madre fornisce alla donna un’identità che, anche in questo caso, annulla, nasconde la divisione soggettiva propria dell’essere parlante. La donna tutta-madre, infatti, è per l’appunto tutta, è quella che ha; il che significa, se seguiamo l’insegnamento di Lacan, che non è una donna, che non rientra nella logica del non-tutto. Questo, però, è un dato in quanto la madre – senza l’intervento del Nome- del-Padre che limita il suo desiderio-godimento rispetto al suo avere-figlio – non può essere altro che la madre-coccodrillo di cui ci parla Lacan. In effetti, senza la mediazione prodotta dalla funzione paterna, il bambino diventa «“l’oggetto” della madre, e non ha altra funzione che di rivelare la verità di questo oggetto. Il bambino realizza la presenza di ciò che Jacques Lacan designa come l’oggetto a nel fantasma» (nota 21). Proprio in quanto il bambino realizza il sembiante, però, la maternità può anche essere l’origine di un incontro con il reale. 

Per affrontare, invece, la donna che sceglie di diventare il fallo per il desiderio dell’uomo, è necessario tenere a mente un altro dato di struttura; è necessario cioè, come dice J.-A. Miller, «partire dall’antipatia della posizione femminile verso i sembianti, per afferrare in che modo la donna li maneggia, li adotta, li fa rispettare e in che modo li fabbrica.» (nota 22). Proprio in quanto mancante, in quanto colei che non ha, la donna è più prossima alla verità che la psicosi mette drammaticamente in evidenza, vale a dire il buco strutturale, il fatto che non esiste Altro dell’Altro (S(%)) e che, quindi, la realtà non è altro che sembiante.

Diventare il fallo, quindi, per la donna significa diventare l’oggetto del desiderio dell’uomo, significa fallicizzare il proprio corpo – nascondendo, mascherando il “non avere” costitutivo del corpo – e, in definitiva, utilizzare quella che Joan Rivière ha definito come la «mascherata femminile» (nota 23). Dato che il fallo è il sembiante per eccellenza, il significante del desiderio, scegliere di diventarlo significa in primo luogo conoscerne o intuirne lo statuto di sembiante e, quindi, usarlo come tale. I vestiti, le scarpe, gli accessori vari rientrano, quindi, nell’arsenale della mascherata che serve alla donna per mostrare quello che non ha, mettendo in mostra altro. L’abito (che ha la stessa radice del verbo latino habere, avere) e la maschera le permettono di nascondersi comodamente dietro varie identificazioni in quanto la maschera, oltre a nascondere, le offre un viso a cui identificarsi. A questo proposito, però, sempre nel Seminario V, Lacan fa notare che, in ogni caso, il soggetto non è il fallo, nella sua posizione naturale il soggetto ce l’ha oppure non ce l’ha. Attraverso gli abiti, la mascherata,  «si mette a fomentare questo, ... che ce l’ha. Ella sottolinea che vuole averlo sotto forma di vestiti [...] vuole presentarsi come avente quello che sa perfettamente di non avere, si tratta qui di qualcosa che per lei ha tutto un altro valore, che ho chiamato il valore della mascherata. Ella fa precisamente della propria femminilità una maschera ... visto che il fallo è per lei il significante del desiderio, si tratta che ella ne presenti l’apparenza, che sembri esserlo.» (nota 24).

La mascherata femminile

A questo punto, quindi, passiamo dal registro della maschera a quello della mascherata che, come il termine stesso ci fa intuire, assume una certa connotazione negativa. La mascherata, cioè, è la degradazione della maschera, è la sua forma esagerata in quanto fa della mancanza, del “non avere” della donna il suo essere il fallo. Il sembiante perde così la leggerezza e la mobilità che gli è propria per assumere la consistenza dell’essere: “io sono, per così dire, una certa immagine – più o meno codificata – della donna e quando, invece, non lo sono, non esisto”

Lacan, nel Seminario XI, spiega il senso della mascherata femminile in questi termini:

«Tale rappresentazione dell’Altro manca, per l’appunto, tra questi due mondi opposti che la sessualità ci designa nel maschile e nel femminile. Spingendo le cose al massimo, possiamo persino dire che l’ideale virile e l’ideale femminile sono raffigurati nello psichismo da altro che non da questa opposizione attività-passività di cui parlavo prima. Essi dipendono propriamente da un termine che non ho introdotto io, ma che un’analista ha affibbiato all’atteggiamento sessuale femminile, vale a dire la mascherata. La mascherata non è quello che entra in gioco, a livello degli animali, nella parata necessaria all’accoppiamento e, inoltre, in questo caso, l’ornamento si manifesta generalmente sul lato del maschio. La mascherata ha un altro senso nell’ambito umano, precisamente quello di giocare a livello non più immaginario, ma simbolico.» (nota 25)
J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964. 

La mascherata, quindi, designa precisamente la trasformazione simbolica – e quindi codificata nel campo dell’Altro – dello statuto immaginario della maschera. Già ne La significazione del fallo, però, Lacan dà un’indicazione molto precisa di quello che significa questa modalità della maschera: «...diciamo che per essere il fallo, cioè il significante del desiderio dell’Altro, la donna rigetterà una parte essenziale della femminilità, specialmente tutti i suoi attributi nella mascherata.» (nota 26). Vale a dire che la donna, per essere il fallo, rigetta il godimento che le è proprio, il godimento Altro, e, proprio in quanto stretta all’interno dell’«identificazione immaginaria [...] al campione fallico che fa da supporto al fantasma» (nota 27), spesso può ritrovarsi a soffrire di varie forme di frigidità.

L’esempio che Joan Rivière porta, nel suo articolo del 1929, Womanliness as a Mascarade, per teorizzare la sua nozione di mascherata è quello di una donna realizzata nella propria vita professionale, riconosciuta nell’ambiente intellettuale a cui appartiene, impegnata politicamente, madre e sposa felice che, però, viene presa dall’angoscia ogni volta che parla di fronte ad un pubblico di persone. L’angoscia, tuttavia, non la assale né prima né durante i suoi interventi, ma bensì dopo, quando viene invasa dall’idea di aver commesso un atto inopportuno. Per evitare la questione relativa alla mancanza di avere propria della donna, l’isterica, infatti, da un lato può identificarsi all’altra donna, alla donna che lei suppone custodisca il mistero della femminilità e del desiderio, e, dall’altro, come nel caso indicato da Joan Rivière, può scegliere di “fare l’uomo” e, quindi, di rivaleggiare con l’uomo, con l’uomo che ha e che sa. Nel primo caso, cioè quando l’isterica sceglie, per così dire, come partner privilegiato l’altra donna, essa entra, come dice Lacan nel Seminario V, «in un mondo di identificazioni che la mette in un certo rapporto con la maschera, vale a dire con tutto quello che, in un modo o nell’altro, può fissare e simbolizzare, secondo un certo tipo, la questione del desiderio.» (nota 28) In questo modo, però, ella si identifica essenzialmente alla maschera che rappresenta le varie modalità della mancanza e che, di conseguenza, possono declinarsi anche nella modalità della donna povera, nel registro del masochismo femminile. Nel caso, invece, della paziente di Joan Rivière, l’isterica fa l’uomo mostrandosi, però, mascherata: da un lato, dà l’illusione di avere il fallo (il suo successo e il suo sapere, infatti, castrano gli uomini) e, dall’altro, per poterlo fare, deve necessariamente indossare gli abiti della donna che non ha, della donna debole, incerta, gracile. Ha bisogno di essere rassicurata dai complimenti, a sfondo più o meno sessuale, che ella provoca negli uomini che la ascoltano e dei quali teme il giudizio o la critica. In altri termini, ella cerca soprattutto «indossando la maschera dell’innocenza, di assicurarsi la propria impunità» (nota 29). Questa strategia, di fatto, è quella che permette all’isterica di mantenere separati desiderio e godimento, è lo stratagemma che le permette, cioè, di vivere di desiderio a condizione che questo resti sempre insoddisfatto.

Nella nevrosi ossessiva femminile, invece, la mascherata svolge una funzione un po’ diversa: da un lato, come nell’isteria, essa ricopre la mancanza di avere della donna e, dall’altro, però, essa è influenzata dal valore molto particolare che il desiderio, il desiderio dell’Altro assume nella nevrosi ossessiva e che Lacan sviluppa in maniera dettagliata nel Seminario V. Se, infatti, nell’ossessivo il rapporto con il desiderio è essenzialmente un rapporto che distrugge il desiderio, che lo annulla in quanto fonte di angoscia, se l’ossessivo può mantenere vivo il proprio desiderio solo a condizione di mantenersi a una certa distanza da esso, è evidente che la mascherata femminile e, più in generale, la maschera assumono un valore ben diverso che nell’isteria. Molto probabilmente la mascherata si declinerà piuttosto nella forma del rito che, così spesso, scandisce la vita dell’ossessivo e lo rassicura in quanto annulla, per quanto possibile, la dimensione del contingente, dell’incontro con il desiderio dell’Altro.

«Femme à postiche» e «femme à manque»  

Nella nevrosi, talvolta, tuttavia, la maschera può venire sostituita dal posticcio, come dice J.- A. Miller, da un «pezzo riportato» (nota 30) , artificiale, che viene messo al posto di quello che non c’è, di quello che manca. La cosiddetta FAP- la femme à postiche (donna da posticcio) è la donna che inganna l’altro facendogli credere di avere quello che non ha, sia esso sapere o potere, e che difende questo suo finto sembiante a denti stretti. Anche in questo caso, visto che il dato “naturale” è la mancanza, l’apparenza è essenziale in quanto il posticcio deve sembrare di sua proprietà. Si tratta, però, di un’apparenza un po’ particolare in quanto nega al fallo il suo statuto di sembiante: il fallo si realizza nel posticcio che, in questo modo, nega assolutamente la mancanza. È evidente, comunque, che la FAP soggettiva la propria mancanza solo sul lato dell’avere.

In contrapposizione alla FAP, J.-A. Miller parla anche della FAM – la femme à manque (donna da mancanza), la donna «che opera con il non avere» (nota 31) e che sa mostrare all’uomo quanto sia ridicolo l’avere. Con la mascherata, abbiamo già visto una modalità di operare con il non avere attraverso il sembiante; l’essere il fallo, però, non esaurisce l’essere della donna. La modalità specifica della posizione femminile, infatti, come dice J.-A. Miller, è quella dell’amore che, nei termini lacaniani, significa donare quello che non si ha, la propria mancanza. Significa, cioè, in primo luogo assumere la propria mancanza reale e poi offrirla all’uomo che si ama. Eventualmente, la «donna lacaniana» (nota 32) può anche acconsentire a portare un posticcio su richiesta dell’uomo amato – quest’ultimo, però, per chiederlo, non deve aver paura della castrazione femminile – e per suscitare il suo desiderio. In questo caso, però, il posticcio non viene affatto a coprire la mancanza, ma si presenta per quello che è: un posticcio «che si confessa maschera del niente» (nota 33).

La maschera e il niente  

La maschera, quindi, serve al soggetto per nascondere la propria mancanza, per nascondere il vuoto che sta al cuore del soggetto; essa è sempre, come dice J.-A. Miller, «maschera di niente – è questo che vi è in comune tra il Padre e il concetto stesso della donna.» (nota 34). Ed è in questo senso che Lacan, nella sua Prefazione al Risveglio di primavera (nota 35), parla dell’Uomo mascherato come del «sembiante per eccellenza», della maschera del niente in quanto esso è solo maschera. «In quanto, come si può sapere quello che è se è mascherato e qui l’attore non porta forse la maschera di donna? Solo la maschera ex-isterebbe nel posto vuoto in cui pongo La donna. In questo senso non dico che non ci sono donne. La donna come versione del Padre, si raffigurerebbe solo come Père-versione». La donna, cioè, sarebbe una maschera del Padre, del Nome del Nome del Nome, che si realizza, però, solo nella psicosi. 

La maschera nella psicosi 

La maschera, come Massimo Recalcati spiega molto chiaramente nel suo testo sulla Clinica del vuoto, assume una funzione molto particolare nella psicosi. La forclusione del Nome-del-Padre, infatti, priva il soggetto di ogni aggancio simbolico con questa funzione, egli è nel linguaggio ma è fuori discorso. Da qui deriva, da un lato, una parola senza punto di capitone, una frase che si specifica per il fatto di non avere la chiusura necessaria alla determinazione del senso, e dall’altro, un rapporto con il proprio corpo molto particolare. Proprio perché nella psicosi – e, più in particolare, nella schizofrenia – non si realizza l’identificazione narcisistica costituente, il corpo viene vissuto come frammentato, non riesce a strutturarsi come un’immagine, compiuta, unitaria; il soggetto non riesce, cioè, a fare della maschera una persona. Quello che si produce, dunque, è una sorta di «indifferenziazione sessuale, indifferenziazione tra sé e l’altro, indeterminazione dei suoi confini immaginari, ecc..» (nota 36). Mentre nella paranoia, si ha una proliferazione dell’immaginario e, quindi, una cattura immaginaria che fa dell’immagine dell’altro l’ideale esteriorizzato e, al tempo stesso, il rivale mortale, nella schizofrenia è l’immagine in quanto tale che non si costituisce nella sua unità. In questo senso, quindi, la maschera nella psicosi può servire a dare sostegno all’essere del soggetto, può fornirgli una sorta di identità artificiosa della quale, però, egli non può fare a meno in quanto perdendola perderebbe il proprio essere, come nel caso di Lol V. Stein.   La maschera, quindi, può servire al soggetto per difendersi dall’Altro persecutore, dall’Altro che gode. Nel caso della schizofrenia, inoltre, sempre secondo quanto scrive M. Recalcati, il vissuto del “corpo in frammenti” può essere riassorbito da un’identificazione massiccia alla maschera e all’unità-identità che essa può fornirgli. In questo senso, egli scrive, «un soggetto schizofrenico che si dedicava all’attività teatrale poteva trovare insopportabile e fonte d’angoscia panica l’uso negli esercizi di recitazione con la maschera neutra, ovvero con quella maschera che non identifica ad un ruolo ma, essendo appunto costituita solo dalle aperture della bocca e degli occhi, resta indeterminata, non individuata» (nota 37). 

Per concludere mi rifarò ancora una volta a quanto dice Lacan nel Seminario V e che condensa il carattere di necessità e, al contempo, di difficoltà insito nella funzione stessa della maschera. In quanto il fallo è il significante del desiderio per entrambi i sessi, entrambi devono fare a meno di esserlo (il fallo) per potersene servire nella commedia dei sessi. Rispetto alla femminilità, poiché il «fatto che essa si esibisca e si proponga come oggetto del desiderio, la identifica in modo latente e segreto al fallo, e colloca il suo essere di soggetto come fallo desiderato, significante del desiderio dell’Altro.» (nota 38). Tuttavia, il «dilemma», come lo chiama Lacan, sta proprio nel fatto che il desiderio femminile sfocia necessariamente in una sorta di «profonda estraneità del suo essere rispetto a ciò in cui ella deve apparire».  A differenza dell’uomo, che, comunque, è anch’egli alle prese con il «dilemma» proprio del suo sesso, per la donna il pene simbolico è «all’interno [...] del campo del suo desiderio». Ed è proprio in quanto «nel campo del suo desiderio, deve essere il fallo, che la donna proverà la Verwerfung dell’identificazione soggettiva, quella che si produce laddove termina la seconda linea, parte di D maiuscola.» (nota 39). Il che significa che, quale che sia la maschera che ella indossa, una donna resta comunque l’Altro assoluto, l’Altro persino rispetto a se stessa. 

 

 

1  J. Lacan, Il Seminario. Libro IV. La relazione d’oggetto, 1956-1957, Einaudi, Torino 1996.
2  J.-A. Miller, La natura dei sembianti, in “La Psicoanalisi”, n. 13 e seguenti, Astrolabio, Roma 1993-1995.
3  J.-A. Miller, La natura dei sembianti, in “La Psicoanalisi”, n. 15, Astrolabio, Roma 1994, p. 148.
4  J. Michelet, La strega, Biblioteca universale Rizzoli, Milano 1977.
5  J. Lacan, Giovinezza di Gide o la lettera e il desiderio, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 750.
6  J. Lacan, Nota sulla relazione di Daniel Lagache: “Psicoanalisi e struttura della personalità”, in Scritti, cit., p. 667.
7  Ivi.
8  J.-A. Miller, La natura dei sembianti, in “La Psicoanalisi”, n. 15, cit., p. 170.
9  J. Lacan, Le Séminaire. Livre V. Les formations de l’inconscient, 1957-1958, Seuil, Paris 1998.
10 Ibidem, p. 324.
11 Ibidem, p. 331.
12 Ibidem, p. 333.
13 Ivi.
14 Ibidem, p. 337.
15 J. Lacan, Le Séminaire. Livre V, cit., p. 131.
16 J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, Einaudi, Torino 1979, p. 108.
17 Ivi.
18 Ibidem, p. 117.
19 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVIII. D’un discours qui ne serait pas du semblant, 1970-1971 (inedito).
20 J.-A. Miller, La natura dei sembianti, in “La Psicoanalisi”, n. 15, cit., p. 179.
21 J. Lacan, Due note sul bambino (1969), in “La Psicoanalisi”, n. 1, Astrolabio, Roma 1987, p. 22.
22 J.-A. Miller, La natura dei sembianti, in “La Psicoanalisi”, n. 15, cit., p. 161.
23 J. Rivière, La féminité en tant que mascarade, in Féminité mascarade. Études psychanalytiques réunies par Marie- Christine Hamon, Seuil, Paris 1994, pp. 197-213.
24 J. Lacan, Le Séminaire. Livre V, cit., pp. 453-454.
25 J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, cit., p. ??.
26 J. Lacan, La significazione del fallo, in Scritti, cit., pp. 691-692.
27 J. Lacan, Per un congresso sulla sessualità femminile, in Scritti, cit., p. 729.
28 J. Lacan, Le Séminaire. Livre V, cit., p. 467.
29 J. Rivière, La féminité en tant que mascarade, cit., p. 202.
30 J.-A. Miller, La natura dei sembianti, in “La Psicoanalisi”, n. 15, cit., p. 173.
31 Ibidem, p. 180.
32 J.-A. Miller, La natura dei sembianti, in “La Psicoanalisi”, n. 16, Astrolabio, Roma 1994, p. 154.
33 Ibidem, p. 155.
34 J.-A. Miller, La natura dei sembianti, in “La Psicoanalisi”, n. 15, cit., p. 182.
35 J. Lacan, Prefazione al Risveglio di primavera di Wedekind (1974), in “La Psicoanalisi”, n. 7, Astrolabio, Roma 1990, pp. 9-12.
36 M. Recalcati, Clinica del vuoto. Anoresie, dipendenze, psicosi, Franco Angeli, Milano 2002, p. 128.
37 Ibidem, p. 136.
38 J. Lacan, Le Séminaire. Livre V, cit., p. 350.
39 Ibidem, p. 351.