Intervento al Seminario-Affori dal titolo “L’identificazione attraverso il sintomo”.

organizzato da Carlo Viganò (6.05.2011)

Venerdì 6 Maggio 2011, 9.30 – 11.15

L’identificazione attraverso il sintomo 

Il titolo del mio intervento “l’identificazione attraverso il sintomo” è un titolo che non ho scelto, che mi è stato proposto dal collega Carlo Viganò, è un significante che lui mi ha dato perché, di fatto, come vedremo in seguito, il significante viene sempre dall’Altro, è il significante dell’Altro. Chiederei, pertanto, a Viganò di intervenire, dopo che avrò letto queste mie riflessioni, con le sue osservazioni. 

Proverò, quindi, a interrogare questa “questione” – il tema dell’identificazione attraverso il sintomo – cercando di mettere insieme, da un lato, alcuni concetti della teoria lacaniana e, dall’altro, l’esperienza clinica che sto facendo, in questa sede, nell’ambito del Progetto TR33, un Percorso diagnostico terapeutico integrato ambulatoriale e/o semiresidenziale per i disturbi del comportamento alimentare. I pazienti che entrano nel progetto, in effetti, si presentano qui con un sintomo, o meglio, con un significante “disturbo del comportamento alimentare”, “anoressia”, “bulimia”, “obesità” che l’Altro della medicina, l’Altro della sanità (mentale), ha fornito loro per rispondere, definendolo, al problema di cui soffrono. Questi significanti, con cui i pazienti si presentano a noi come fosse il loro biglietto da visita, in realtà provengono da una categorizzazione della salute mentale, fatta a partire dal DSM IV che si fonda su una lettura fenomenologica – la presenza di un certo sintomo e/o disturbo, di una certa entità e per un certo periodo di tempo –, non strutturale, dell’esperienza clinica. Più che essersi identificati attraverso un sintomo, quindi, i pazienti quando giungono qui, nel reparto di un ospedale, vengono identificati da una definizione di disturbo …, nella cui formulazione incidono anche dati statistici, calcoli economici, reazioni standard e non-standard, ecc… L’Altro sociale, in particolare quello medico e scientifico, ha attribuito a tali pazienti il significante di un sintomo sociale, espresso a partire dai criteri diagnostici del DSM. Il problema, però, è come questo significante entri a far parte dei significanti propri del paziente, cosa venga a dire di lui e a lui,…in ogni caso possiamo essere certi che esso sarà un significante in più, con cui il paziente avrà a che fare nel corso della sua esistenza. Il significante “anoressia”, inoltre, nel DSM può essere applicato a una classe di individui, che manifestano anche altre sintomatologie; proprio per questo esso è necessariamente generico, non dice molto della particolarità del sintomo, che in ogni parlessere, come diceva Lacan, in ogni essere di parola, prende senso solo in funzione degli altri elementi dell’insieme-struttura soggettiva. Per Lacan, infatti, il sintomo ha un senso sempre all’interno di una struttura soggettiva, che tiene conto del suo Altro. Il sintomo sociale, d’altro canto, non corrisponde al cosiddetto sintomo analitico, cioè al sintomo così come viene inteso a partire dall’esperienza analitica. Il sintomo analitico, infatti, è sempre un sintomo “sotto transfert”, transfert che, come si sa, è il motore stesso del lavoro di elaborazione: il sintomo analitico è una questione, un enigma, rispetto al quale il soggetto suppone che abbia un senso nascosto che deve essere trovato, suppone che il sintomo dica qualcosa … di qualcos’altro. In un servizio come quello di Affori, spesso i pazienti giungono dopo aver fatto altri percorsi di cura, e talvolta non vogliono sapere niente, del sapere inconscio che li determina, mentre vogliono anzitutto disfarsi del sintomo, come se fosse qualcosa da cui ci si può liberare…In quanto terapeuti siamo quindi implicati (e responsabili) nel fatto di rendere possibile per ogni paziente, uno per uno, uno spazio di interrogazione, su di sé e sui propri punti di impossibile. Questo è possibile grazie al nostro ascolto che, in linea generale, nei casi di nevrosi, dovrebbe tenere aperto, interrogandolo, lo scarto tra il sintomo sociale dell’anoressia e il sintomo soggettivo, che è sempre singolare. Questo significa non cercare conferme nelle definizioni standard ma cogliere piuttosto la novità, la singolarità di quanto il paziente dice. 

Lo psicoanalista Jacques Lacan, nei trent’anni del suo insegnamento, ha elaborato diverse riflessioni sul concetto di sintomo e sulla sua funzione. Tali riflessioni cambiano a seconda delle sue diverse concezioni dell’inconscio – dapprima mette in valore un inconscio di tipo transferale – il “soggetto supposto sapere” che è un sapere supposto, ovvero la credenza nel fatto che il sintomo voglia dire qualcosa e che lo si debba decifrare, e poi, alla fine del suo insegnamento, l’inconscio reale – cioè l’inconscio in quanto fuori-senso, puro prodotto della pioggia di significanti, prodotto della lalingua – e del godimento. Su questo tema, vi segnalo l’articolo di Jacques-Alain Miller, “I sei paradigmi del godimento”, che mostra i mutamenti di questo concetto nell’elaborazione di Lacan. Anche la sua concezione del sintomo, nel corso degli anni, quindi, si modifica,  e questo a partire anche dalla sua esperienza clinica. In “Funzione e campo della parola e del linguaggio”, uno scritto del 1953, Lacan, rileggendo Freud, indica che “il sintomo si risolve interamente in’analisi di linguaggio, perché è esso stesso strutturato come un linguaggio, è linguaggio la cui parola deve essere liberata” (E, p. 269). Ne parla, quindi, come di una metafora, come di un significante che sta al posto di un altro, e che deve essere liberato. Nel primo periodo del suo insegnamento, in effetti, Lacan considera il sintomo interamente come un messaggio (inconscio) da decifrare, e sostiene che “il sintomo è il significante di un significato rimosso dalla coscienza del soggetto” (p. 280) che, per risolversi, necessita di essere portato alla luce nel corso dell’analisi. In questo senso, la psicoanalisi, per il Lacan degli inizi degli anni cinquanta, consiste sostanzialmente nel far emergere – attraverso l’associazione libera – il senso rimosso dei sintomi, per scrivere quelle che lui chiama anche le pagine bianche del libro del paziente… Il sintomo, quindi, è l’altra faccia della rimozione, è una forma del ritorno del rimosso e, al tempo stesso, un godimento sostitutivo; come aveva già indicato Freud, infatti, il sintomo non è solo un messaggio da decifrare ma è anche un godimento paradossale, pulsionale, che si ignora, e che si presenta nel paziente come una sofferenza.   

Negli anni sessanta, nel seminario dedicato all’Etica della psicoanalisi, Lacan non parla propriamente di clinica ma introduce un nuovo concetto nella sua riflessione, quello di godimento reale, cioè del Godimento come qualcosa di impossibile, Das Ding. La Cosa, che Lacan mutua da Freud, è l’impensabile, l’impossibile, l’insopportabile, un godimento assolutamente altro che, proprio per questo, non si può accostare. In questo periodo, il sintomo è quindi una risposta di fronte all’impossibile di tale godimento. Il sintomo, viene così collegato, non tanto alla rimozione, quanto piuttosto alla difesa, che la precede. Come dice J.-A. Miller nei suoi “Paradigmi del godimento”, Lacan “riferisce il sintomo al carattere strutturalmente disarmonico della relazione con il godimento. Il sintomo è il modo in cui il soggetto formula che il godimento è cattivo”. Quindi, il sintomo diventa, per Lacan, la risposta del soggetto di fronte al godimento, la sua risposta all’incontro traumatico con il godimento. Nel Seminario XI, dedicato ai Quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, del 1964, Lacan ribadisce, comunque, l’interpretazione (per così dire simbolica) del sintomo sviluppata negli anni cinquanta. Egli, infatti, sostiene che:

“Il rimosso primordiale è un significante, e quanto vi si edifica sopra per costituire il sintomo, possiamo sempre considerarlo come un’impalcatura di significanti. Rimosso e sintomo sono omogenei, e riducibili a funzioni di significanti. La loro struttura, benché edificata per successione come ogni edificio, tuttavia, al termine, è iscrivibile in termini sincronici.”
(J.Lacan, Séminaire XI, pp. 160-161).

Il sintomo, quindi, è un’impalcatura di significanti (secondo un ordine diacronico) che tiene insieme una struttura (in senso sincronico), quella del soggetto. Il sintomo è f(x). 

Nell’ultimo periodo del suo insegnamento, Lacan sottolinea piuttosto il carattere ripetitivo del sintomo: il sintomo, cioè, si presenta come una ripetizione del godimento e addirittura corrisponde al modo particolare, del paziente, di saperci-fare con il godimento. Nella sua Conferenza “Il sintomo”, pronunciata a Ginevra nel 1975, Lacan riprende il tema del sintomo, accostandolo a una nuova definizione dell’inconscio, ovvero: “l’inconscio non è semplicemente il fatto di essere non saputo”, perché, come specifica più oltre, “non c’è bisogno di sapere che si sa, per godere di un sapere”. L’inconscio, quindi, appare qui nella sua forma più reale, è il modo in cui un soggetto è stato impregnato dal linguaggio (moterialismo della lalingua) da cui si originano i suoi sintomi. L’effetto di inconscio si produce quindi nel contatto con il linguaggio, nella sua forma del “parlar materno”, come direbbe Dante; l’incontro con la lingua materna, con la sua materialità, è quindi ciò che fa trauma per l’essere parlante. Così come fa trauma l’incontro con il godimento del corpo. La fobia del piccolo Hans, ad esempio, “è l’espressione, la significazione del rifiuto” di quelle che sono state le sue prime esperienze di godimento del corpo, ovvero le sue prime erezioni: ne ha paura e le incarna in tutti gli oggetti che gli stanno accanto. Il piccolo Hans, inoltre, subisce questo incontro con il godimento come una sorpresa, una brutta sorpresa, in quanto il godimento è separato da ogni senso, è fuori senso ed ex-siste rispetto al soggetto. Il godimento, quindi, si presenta a lui in una dimensione di esteriorità. La fobia del piccolo Hans, il suo sintomo, secondo Lacan, è una metafora che gli serve per “dare corpo all’imbarazzo che ha per il fallo, per quel godimento che ha del fallo, per quel godimento che è venuto ad associarsi al suo corpo”. Questo godimento traumatico, fuori senso, ha prodotto in lui il sintomo fobico, che per Hans è stato un modo per mettere a distanza (o mettersi a distanza) il reale del godimento.  

Riassumendo, possiamo dire che il sintomo, nell’elaborazione di Lacan, è dapprima una metafora, è la sostituzione di un significante a un altro, con un effetto di senso – su cui si può agire attraverso l’interpretazione analitica – (cfr. l’afonia di Dora in relazione al termine del sintomo “impotente”) e, in seguito, soprattutto la fissazione a una lettera di godimento, che si ripete, fuori senso. Il sintomo, cioè, traduce in reale, in godimento, una lettera dell’inconscio, un tratto fisso, un significante che si ripete, un “Uno”. Come ha detto di recente J.-A. Miller a Londra,

“il godimento non è primario… è prodotto dal significante, c’è uno shock iniziale, un evento di corpo che si ripete. Un sintomo è questa reiterazione dello stesso uno”.
J.-A. Miller

Questo limita, o comunque mette in questione, “i poteri della parola” dell’analista sul reale del sintomo ed è per questo che l’interpretazione deve mirare, non tanto agli effetti di senso, quanto alla “fissità del godimento, all’opacità del reale”, che, secondo Lacan, si può tentare di far muovere solo attraverso l’equivoco, l’interpretazione equivoca. In quanto fissazione di godimento, il sintomo, quindi, è un nome di identità che nomina il soggetto a partire dal suo singolare modo di godimento, che è unico, che gli è specifico. Come Lacan mostrerà poi nella clinica borromea, il sintomo è un annodamento che fa tenere insieme il corpo, il godimento e l’inconscio ed è la soluzione soggettiva di fronte alla castrazione. Benché il paziente chieda di essere liberato dal sintomo, in realtà, non esiste essere parlante senza sintomo – “siamo fatti della stoffa dei nostri sintomi” ha detto anche Miller, parafrasando Shakespeare –; per questo l’analisi è ciò che permette al soggetto di trovare un sintomo più vivibile, vale a dire una nuova alleanza tra pulsione e linguaggio. Questa nuova alleanza, alla fine dell’analisi – così come la teorizza Lacan – si manifesta come identificazione al sintomo, al proprio sintomo, in quanto identicità di godimento, ripetizione di godimento; secondo Lacan, quindi, la fine di un’analisi è contraddistinta precisamente dal fatto di riconoscersi nel proprio sintomo, nella propria modalità di effetto-godimento.     

Questi sono alcuni concetti lacaniani minimi per affrontare la questione del sintomo e dell’identificazione che esso permette. Per quanto riguarda, invece, l’esperienza clinica che sto facendo in questa sede, mi preme anzitutto far notare che io qui non ho mai incontrato quello che è stato definito, anche in ambiente lacaniano, il monosintomo, ovvero l’identificazione, per così dire pura e semplice, al significante anoressica o bulimica: “Sono anoressica …”. Sintomo autistico sì, ma non monosintomo. Forse perché, in questa sede, in genere arrivano pazienti che hanno già un precedente percorso di cura, di solito molto medicalizzato, che, però, non ha funzionato… o che comunque non ha risolto il problema. Ogni paziente ha pertanto declinato in modo personale, all’interno del suo insieme-struttura, il suo rapporto con l’oggetto orale, attraverso il “mangiare niente” dell’anoressia e il mangiare tutto (o comunque molto) della bulimia. A partire dalla mia esperienza, posso inoltre dire che quando un paziente si definisce in modo così “identificato”, così “congelato”, al significante dell’Altro, quando lo prende alla lettera – il significante “anoressica” per esempio – questo non è un buon segno e spesso è indice di una struttura psicotica. In questo caso, il sintomo anoressico va maneggiato con cura perché è ciò che tiene insieme il soggetto, è il suo escabeau, il suo “sgabello”, per riprendere una definizione del sintomo che Lacan sviluppa nel suo Seminario XXIII, in relazione alla figura dello scrittore irlandese James Joyce. Per quanto spesso a rischio di vita, il sintomo anoressico, in alcuni casi di psicosi, è comunque un sintomo separatore, che serve a separare il soggetto dal suo Altro materno, dal suo godimento, e che gli dà un certo equilibrio, o comunque una stabilità. Nel caso di una giovane paziente che seguo qui, il fatto che il suo sintomo (anoressico-bulimico) privato sia entrato in contatto, attraverso qualche day hospital, con il mondo delle anoressiche (e delle cure ad essere dedicate) ha sconvolto il delicato equilibrio della paziente. Prima per lei l’anoressia e gli attacchi bulimici non erano un problema, facevano parte di lei ma non erano un problema, perché delimitavano il campo del suo privato (in cui poteva star male, abbuffarsi) – mentre lo stare con gli altri implicava altre modalità di comportamento, che le riuscivano senza problemi. Ora questo equilibrio dentro-fuori è stato scosso ….ed ha perso i suoi punti limite. La cura consiste, quindi, nell’aiutare la paziente a trovare nuovi punti di equilibrio, affinché il sintomo sia per lei più vivibile… tanto più che ora l’anoressia ha invaso anche le sue relazioni con gli altri. In altri casi, sempre di psicosi, il sintomo anoressico/bulimico mostra in modo evidente il rapporto impossibile – nel senso di un’impossibile separazione – con la madre e con il sintomo di quest’ultima. Il sintomo, in questo caso, serve per separarsi ma, al tempo stesso, è legato, intrecciato, al sintomo dell’Altro. E questo rende molto difficile ogni manovra.  

Negli ultimi anni del suo insegnamento, Lacan ha parlato (a dire il vero, una sola volta) del sintomo anche come di un “evento di corpo”, vale a dire come di una risposta di godimento nel corpo. Nel caso dell’anoressia, invece, Lacan ha usato un altro termine, molto particolare, per definire tale sintomo: ne ha parlato come di “un’azione”, propria dell’anoressica, “che enuncia «mangio niente»”. È (“Les non-dupes errent” del 1973-74) l’aspetto attivo della posizione anoressica: l’anoressica, dice infatti Lacan, “mangia niente” …. È molto attiva nel suo rifiuto, o comunque nel mettere il niente fra sé e il desiderio dell’Altro. Come indica Lacan nel suo Seminario sulla relazione d’oggetto: “il bambino […] questa assenza assaporata in quanto tale, la usa di fronte a colui che ha di fronte a sé, cioè la madre da cui dipende. Grazie a questo niente, egli la fa dipendere da sé”. (Sem. IV, pp. 184-185). “Per me pochissimo” è quindi la risposta che l’anoressica, secondo Lacan, enuncia nei confronti dell’Altro che, in un certo senso, per lei, è sempre troppo…. in quanto è anzitutto l’Altro della domanda. Come mi ha detto in modo molto chiaro una giovane paziente che seguo qui – e che da subito ha capito come utilizzare al meglio lo spazio della terapia – “quando la domanda è troppo presente”, nella forma del suo ex-ragazzo, molto geloso o comunque intrusivo, onnipresente, oppure nella forma di un Altro materno che, oltre ad essere madre, è anche una maestra elementare molto attiva nell’educare i figli…. “lo stomaco le si chiude”, l’ansia aumenta o, meglio, l’angoscia in quanto segnale che la mancanza manca. Di fronte a una domanda senza limiti, la paziente dapprima ha opposto il suo “niente cibo”, “niente fame” … ora, grazie al lavoro fatto nel corso della terapia, è riuscita ad introdurre a casa sua, uno spazio di silenzio… :non risponde più alla madre o comunque non sta più ad ascoltare le sue prediche…. Il che crea un po’ di mancanza tra lei e la madre.