“Due statuti dell’arte contemporanea: c’è scarto e scarto..”

in Attualità lacaniana, n. 18, Alpes, Roma, 2014.

Due statuti dell’arte contemporanea: c’è scarto e scarto…

Ci sono tre tipi di lettori: il primo gode senza giudicare; il terzo giudica senza godere; il secondo giudica godendo e gode giudicando; è quest’ultimo che propriamente parlando ricrea l’opera d’arte.
J. W. Goethe, lettera a J. F. Rochlitz del 13 giugno 1819 

Ế notizia di qualche tempo fa’ che un’addetta di un’impresa di pulizie, intenta a pulire gli spazi di un’importante esposizione d’arte a Bari, ha gettato nel’immondizia alcuni biscotti che l’artista aveva collocato a terra all’interno della sua installazione, del valore di diecimila euro…. In altri luoghi, degli imbianchini hanno ricoperto o rattoppato dei buchi fatti da alcuni artisti in altre esposizioni: li hanno presi per dei buchi reali, ovvero per dei difetti del muro. Ma cosa sta succedendo oggi all’arte e nell’arte? Nel XXI secolo, quelle che un tempo erano le opere d’arte - venerate o temute, comunque poste a livello dell’Ideale – si presentano ora sempre più al pubblico nel loro aspetto di oggetto scarto, nella duplice versione di scarto inteso come resto e come immondizia. Oggetto scarto che, però, spesso, il pubblico non capisce ma che riconosce come oggetto d’arte più per il nome dell’autore o per il valore economico ad esso associato in quanto il mercato dell’arte è diventato democratico, e ormai sta occupando una quota sempre più vasta del mercato globale dei capitali. 

L’ordine simbolico nel XXI secolo è cambiato, “non è più quello che era”, e questo ha i suoi effetti anche nell’ambito dell’arte. Ma cos’è cambiato? E la sublimazione? Funziona ancora come l’ha definita Freud e come l’ha elaborata Lacan nel corso del suo insegnamento? Oppure è cambiata? Esiste ancora? Questo è il tema che vorrei circoscrivere in questa mia breve riflessione.

Stato dell’arte 1: “l’arte è un falso”… 

Il famoso critico Jean Clair sostiene (nota 1) che l’arte contemporanea “è un falso” in quanto la sua autenticità è sempre più difficile da stabilire. Mentre nel passato il valore di un’opera dipendeva, a suo dire, da una fede, legata all’esperienza artistica del passato o a una definizione del bello, oggi, dice Clair “la fede cieca si muta in magia nera”: ora “l’artista offre in dono gli scarti, le scorie del proprio corpo sotto il nome di ‘opere d’arte’”. Perché l’opera sia credibile, però, è necessario che il critico sia sostento dallo storico d’arte – che ricostruisce la storia del’opera – e dal mercante d’arte, che le attribuisce un valore, spesso molto elevato e comunque variabile, come i titoli finanziari. A suo giudizio, quindi, l’opera d’arte contemporanea è “un oggetto prodotto a gran velocità, moltiplicato a piacere (...) il supporto indifferente di operazioni speculative fondate su algoritmi completamente sconnessi dal mondo reale”. La lettura critica di Clair si spinge sino a sostenere che ora “non resta nulla del corpo della pittura, di quel corpo un tempo adorato, venerato, ammirato, riprodotto, ricopiato, restaurato con amore”. Quello che resta è piuttosto, lui dice, il feticismo della merce “che porta al possesso non di un’opera preziosa, ma di una merce svuotata di ogni valore proprio, una sorta di titolarizzazione del nulla”. !! 

La visione di Jean Clair è molto critica, forse anche troppo... possiamo quindi supporre che questo derivi dalla delusione rispetto all’ideale di un’Arte che ora non c’è più, alla funzione che l’arte aveva nel passato, in un’epoca in cui il Nome-del-Padre, nella forma dell’Ideale, era ancora operativa, era ancora, come diceva Lacan, “in programma”... Eppure, anche il saggista Demetrio Paparoni descrive, in modo più pacato, le trasformazioni del mondo dell’arte, dall’epoca delle grandi ideologie sino ai giorni nostri:

“dagli anni Novanta in poi (…) la finanza internazionale, divenuta un vero potere occulto, ha cercato (…) il sostegno degli artisti (…) attraverso strategie più sottili, come, per esempio, concepire il proprio nome come un brand, o mettersi al servizio di un brand; produrre opere esplicitamente indirizzate ai grandi investitori; affermare la supremazia delle case d’asta sulle gallerie private; legittimare il ruolo museale di gallerie private concepite come multinazionali; vanificare la credibilità delle piccole e medie gallerie e l’autonomia della critica a totale vantaggio del potere del mercato” (nota 2).
D.Paparoni

Grazie ai nuovi media, inoltre, il marketing è diventato molto più importante della produzione e della qualità stessa dei prodotti. Un artista che ha fatto propria l’ideologia di mercato, secondo Paparoni, è Damien Hirst che, nel suo Manuale per giovani artisti ha scritto: “Per la mia generazione, di questi tempi, l’arte e il business vanno a braccetto. Gli artisti diventano uomini d’affari. Non puoi farne a meno” (nota 3). Commentando l’opera di Hirst For the love of God, Paparoni scrive: “Si potrebbe dire che in essa i principi dell’economia prevalgono sulle implicazioni estetiche, oppure, più correttamente che, rispecchiando l’ideologia dominante, l’opera ingloba le dinamiche della finanza internazionale post-ideologica, ponendole alla base del progetto estetico” (nota 4). Questo significa che, almeno per alcuni artisti, l’oggetto d’arte viene riassorbito nell’oggetto di mercato, oggetto di consumo proprio del mondo a capitalismo avanzato. A conclusione della sua analisi, Paparoni fa valere, però, un’esigenza etica a cui il mondo dell’arte deve rispondere:

“Nel nuovo millennio”, scrive, “l’impossibilità di rimanere estranei alle logiche generate dall’ideologia di mercato dell’era post-ideologica pone nuove questioni etiche cui l’artista non si può sottrarre, come non vi si può sottrarre la critica che, laddove svolga il ruolo di cassa di risonanza delle esigenze del mercato nega il suo ruolo, che è quello di far riflettere sul valore estetico e sociale dell’arte” (nota 5).
D.Paparoni

Stato dell’arte 2: “il paese di Literaturistan”    

Nel testo Non siamo gli ultimi. La letteratura tra fine dell’opera e rigenerazione umana, Massimo Rizzante, si chiede: “che cosa resta dell’arte, una volta scomparse le gerarchie? L’anarchia di un potere illimitato e senza appello” (nota 6). E individua le due forze che, a suo dire, cospirano contro l’arte: “l’esegesi che trasforma ogni opera in monumento e il turismo che trasforma ogni monumento in parco per l’infanzia” (nota 7). Il sapere sull’opera, che grazie ad internet è diffuso su scala planetaria, e il turismo come movimento di godimento di massa, da intendersi come gli “sport invernali” di cui parlava Lacan, ha trasformato definitivamente l’incontro con l’opera d’arte: questo non è più un momento di catarsi, neppure il momento di un percorso soggettivo – di scoperta di sé o di Autre chose – , ma piuttosto un momento di divertimento comandato, e già organizzato dal mercato di massa…Nello specifico della letteratura, e facendo riferimento al successo del fantastico popolato di elfi e di Hobbit, Rizzante sostiene inoltre che il “piacere della forma” si è trasformato piuttosto in “desiderio di plot”, ovvero in un desiderio di storie. Non conta più tanto la forma, lo stile della scrittura, quanto piuttosto la storia, immaginaria e simbolica, che lo scrittore imbastisce. E inoltre, egli afferma che “l’immaginazione dell’arte moderna, per quanto arbitraria possa apparire, è sempre al servizio della possibilità. Mai dell’irrealtà. (…) L’immaginazione dell’arte moderna ha a cuore la comprensione dell’individuo. E quella dei suoi fantasmi” (nota 8).  E così preconizza l’avvento del New World of Leisure, un mondo popolato unicamente da infantosauri! Dal post-moderno in poi, in effetti, l’estetica più diffusa, in ambito letterario, è quella della “contaminazione, della riscrittura, del riuso, dell’intertestualità” mentre l’arte della scrittura, secondo Rizzante, è piuttosto il prodotto di un savoir-faire… con un impossibile. Il “poeta, lo scrittore non è qualcuno che cerca, ma piuttosto qualcuno che inventa, nel senso che i latini davano alla parola ‘invenzione’, ovvero ‘scoperta’: egli scopre in atto un aspetto di ciò che in potenza appartiene alla natura umana”(nota 9). Se la letteratura perde il suo coefficiente di attrito, ovvero il suo effetto di reale, essa si trasforma di fatto in una nozione decorativa dell’arte e così, sempre secondo Rizzante, “la fine dell’opera” corrisponde con “l’inizio dell’estetizzazione della biografia” (nota 10).  Come non vedere, in questa trasformazione della forma letteraria, l’influenza del discorso della psicoanalisi? L’analisi di Rizzante, nonostante l’ottativo del suo titolo, Non siamo gli ultimi, è estremamente critica: la differenza tra “l’esplorazione del mondo presente e la sua semplice rappresentazione è una questione di tempo e di come l’arte del romanzo sia intrinsecamente refrattaria al nostro tempo, o meglio, alla concezione del tempo – tempo della non gestazione, dell’immediatezza dei dati, dell’assenza di tempi – proprio della nostra epoca” (nota 11).

“Merda d’artista” 

Il mondo dell’arte sopra descritto è in sintonia con quanto Jacques-Alain Miller ha elaborato per noi, a Comandatuba nel 2004, relativamente al discorso ipermoderno: l’oggetto piccolo a è salito allo zenit del mondo contemporaneo ed è per questo che “s’impone al soggetto che ha perso la bussola, lo invita a superare le inibizioni” (nota 12), che in genere dovrebbero fare da limite al godimento. D’altro canto, il sapere (S2), “al posto della verità/menzogna”, si è ridotto a puro sembiante, segno del relativismo diffuso prodotto dal discorso del capitalista. Il discorso ipermoderno, che, come spiega J.-A. Miller, ha la stessa struttura del discorso dell’analista, si è imposto a causa dello sviluppo scientifico ed economico, ma anche della psicoanalisi e dell’arte, da Marcel Duchamp in poi. Come indica infatti Gérard Wajcman, l’orinatoio di Duchamp è il cavallo di Troia dell’arte contemporanea:

Fountain è il nuovo vangelo che profetizza che qualsiasi oggetto può prendere il posto dell’oggetto perduto, della Cosa” (nota 13).
G. Wajcman

Caduto il velo del Bello, dell’Ideale, quello che resta è solo l’oggetto, l’oggetto nudo e crudo… che assomiglia molto all’Uno-da-solo che si produce alla fine di un’analisi. In questo senso, Wajcman sostiene che oggi l’arte – perlomeno l’arte di un certo tipo – interpreta, svelando la verità degli oggetti e, ancor prima, rivelando la verità nascosta dietro i sembianti. Alla sublimazione dell’arte, quindi, si sostituisce la mostrazione dell’oggetto, nella sua cruda realtà: body art, istallazioni, oggetti-scarti…, oggetti d’arte inaugurati dall’invenzione ironica di Piero Manzoni, ovvero dalla sua “Merda d’artista”. Ma, in questi termini, possiamo ancora parlare di arte? Cos’è diventata la creazione che, per Lacan, si origina sempre ex nihilo, cioè da un vuoto attorno a cui essa si organizza e che, come suggerisce François Regnault, è da intendersi piuttosto come un punto? “Il vuoto”, dice infatti Regnault, “non ha soltanto una funzione spaziale ma anche simbolica. Ế dell’ordine del reale e l’arte si serve dell’immaginario per organizzare simbolicamente questo reale. Ế tra il reale e il significante” (nota 14). Nel Seminario VII, Lacan parla di questo punto vuoto come di un “vacuolo” che è, da un lato, necessario, in quanto “quel che l’uomo chiede, quel che non può far altro che chiedere, è di essere privato di qualcosa di reale” e, dall’altro, è “al centro dei significanti” (nota 15). È il vuoto che sta al centro della struttura simbolica. 

“Questa non è una pipa” 

A differenza dell’arte-testimonianza, dell’arte dei resti reali criticata da J. Clair, in cui il segno sembra aver preso il sopravvento sul significante, l’operazione messa in atto da Magritte è molto più complessa. Con la sua opera Ceci n’est pas une pipe egli ribadisce, infatti, che l’oggetto d’arte non è il suo referente, che esiste uno scarto – necessario perché sia arte – tra l’oggetto reale e la sua rappresentazione. In tale scarto si colloca il “punto vuoto” attorno a cui si organizza l’opera d’arte: sguardo cieco nell’opera d’arte (pittura e architettura) e voce afona o silenzio nella poesia e nella musica. Il vacuolo, in altri termini è l’ombelico stesso della creazione: un punto vuoto, senza senso, più prossimo al godimento (nota 16) e all’ignoto che non all’inconscio. Tale ombelico-vacuolo è precisamente l’orifizio attorno a cui viene a chiudersi il circuito della pulsione: la pulsione scopica attorno al punto cieco, al punto invisibile, e la pulsione invocante attorno al silenzio o alla voce afona. Il punto vuoto senza senso è anche ciò che permette all’artista, come diceva Picasso, di “trovare”, e non di cercare, la “soluzione” artistica più adatta a lui.

Nel seminario sulla Logica del fantasma, Lacan riprende il concetto di sublimazione in relazione al fallo e alla mancanza. E dice:

“Ế nella misura in cui qualcosa, qualche oggetto può venire a prendere il posto che ha il –φ nell’atto sessuale in quanto tale che la sublimazione può sussistere dando esattamente lo stesso ordine di befriedigung che è dato nell’atto sessuale” (nota 17).
J.Lacan

Per definire la sublimazione, quindi, al concetto di vacuolo Lacan aggiunge quello di mancanza, in quanto elemento fondante dell’arte e della soddisfazione ad essa connessa, per chi la fa e per chi ne fruisce come pubblico o come lettore. La struttura della sublimazione, dice ancora Lacan, “al contrario del puro e semplice atto sessuale, parte dalla mancanza ed è grazie alla mancanza che essa costruisce quella che è la sua opera e che è sempre la riproduzione di tale mancanza” (nota 18). Quindi la mancanza, il punto vuoto è costitutivo dell’opera d’arte, è il luogo stesso da cui essa scaturisce... è da qui che essa parte, non dal pieno degli oggetti di mercato, dei gadget che, invece, fanno piuttosto da tappo alla mancanza. Qualche anno dopo, sempre a proposito della sublimazione, Lacan ritorna a quella che lui chiama “l’anatomia del vacuolo” per spiegarla meglio, in modo topologico. Prendendo come esempio Il Grido di E. Munch, e il “silenzio assoluto” da cui esso emerge, egli attribuisce al vacuolo il carattere di punto “extimo”: come ci ha spiegato anche J.-A. Miller in un suo corso, il punto extimo è “ciò che ci è più prossimo, pur essendoci esterno” (nota 19). Per farci capire meglio questo suo neologismo, Lacan ricorre all’immagine di una dafnia in cui, al posto dell’otolite che ne controlla il senso dell’equilibrio, si mette un pezzo di ferro mentre, all’esterno, si muovono dei magneti attorno ad essa. Cosa succede in questo caso? La dafnia, per così dire, impazzisce, comincia a muoversi, a girare su se stessa – a godere, suggerisce Lacan – a più non posso. Come spiega ancora Lacan, “L’oggetto a svolge questo ruolo rispetto al vacuolo. In altri termini, è quello che solletica Das Ding dall’interno. Ecco. Ế il merito essenziale di tutto quello che si chiama opera d’arte”(nota 20).

Questa, quindi, è la concezione ultima della sublimazione, secondo Lacan. La sublimazione, però, aggiunge ancora Lacan nello stesso Seminario, non è per tutti:

“il nevrotico è incapace di sublimazione. La sublimazione, invece, è specifica di colui che sa fare il giro attorno a ciò a cui si riduce il soggetto supposto sapere. Ogni creazione d’arte si colloca in questo accerchiamento di quello che resta d’irriducibile nel sapere in quanto distinto dal godimento” (nota 21).
J.Lacan

Il punto centrale attorno a cui si organizza l’opera d’arte, infatti, è il nucleo opaco del godimento, il luogo del non-senso, “irriducibile al sapere”, il luogo dell’inconscio reale… E aggiunge: “Qualcosa tuttavia viene a segnare la sua impresa in quanto, per sempre, essa designa nel soggetto la sua inattitudine alla sua piena realizzazione”. Il che significa che non esiste rapporto sessuale, non esiste la piena realizzazione, neppure nell’arte. Ma è proprio per questo motivo che l’artista persevera, ancora e ancora, nella sua opera.. spinto dal luogo di Das Ding a dare una forma, che lo contenga, a quello che, per così dire, lo solletica: l’invisibile nel quadro, il silenzio in poesia e nella musica. L’opera d’arte, quindi, ci attira, ci solletica, ha effetti di soddisfazione su di noi proprio in quanto contiene, nella sua forma stessa, nella sua realizzazione, il punto cieco da cui essa si origina. Come mi diceva di recente un paziente pittore, la differenza fra Bacon e Botero è che nel primo c’è sempre qualcosa dell’invisibile, mentre nel secondo no. In Botero l’arte ha più una funzione decorativa, a livello del principio di piacere, in quanto le sue immagini sono senza scarto, vale a dire senza quella che in poesia si chiama “distanza estetica”. In tale scarto risiede, inoltre, la possibilità di aprirsi su Autre chose, sull’alterità che si ritrova in tutte le grandi opere – d’arte o letterarie, del passato e del presente… In alcune opere d’arte contemporanee, nonostante il loro valore economico (o forse proprio per questo), invece non si produce questo effetto fondamentale, tutto è fermo, non c’è lo spazio/apertura della mancanza, tutto ci pietrifica come solo il reale “nudo e crudo” sa fare….   

 

1  Articolo pubblicato il 23/10/2013 sul sito  www.larepubblica.it
2  D. Paparoni, Il bello, il buono e il cattivo. Come la politica ha condizionato l’arte negli ultimi cento anni, Ponte alle Grazie, Adriano Salani Editore, Milano, 2014, p. 309
3  D. Hirst, Manuale per giovani artisti, Postmedia, Milano, 2004, p. 169.
4  D. Paparoni, Il bello, il buono e il cattivo, op. cit., p. 314.
5  Ivi, p. 374. Bruno Ritter, un amico pittore, mi ha confermato questa tesi;  i nuovi mezzi tecnologici e il mercato globale hanno modificato il modo di fare arte – è un dato di fatto – quello che più manca all’artista, però, è una critica obiettiva o comunque non assoggettata al mercato, sempre più complesso, dell’arte. 
6  M. Rizzante, Non siamo gli ultimi. La letteratura tra fine dell’opera e rigenerazione umana, Effigie Edizioni, Milano, 2009, p. 9.
7  Ivi, p. 11.
8  Ivi, p. 16.
9  Ivi, p. 21.
10 Ivi, p. 27.
11 Ivi, pp. 37-38.
12 J.-A. Miller, “Una fantasia”, ne La Psicoanalisi, n. 38, Astrolabio, Roma, 2005, p. 20.
13 G. Wajcman, “Sublimation”, AA.VV., Semblants et sinthome, Scilicet, ECF, Paris, 2009, p. 341.
14 F. Regnault, Conferenze di estetica lacaniana e lezioni romane, Quodlibet Studio, Macerata, 2009, p. 31. 
15 J. Lacan, Il Seminario VII. L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 2008, p. 191.
16  Cfr.  J. Lacan, Le Séminaire. Livre XXIII, Le sinthome, Seuil, Paris, 2005, p. 167.
17 J. Lacan, Le Séminaire. La logique du fantasme, inedito, lezione del 22 febbraio 1967.
18 Ivi, lezione dell’8 marzo 1967.
19 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVI, D’un Autre à l’autre, Seuil, Paris, 2006, p. 224.
20 Ivi, p. 234.
21 Ivi, p. 353.