"Brevi considerazioni lacaniane sulla bellezza e la paura”

in T. Kemeny (a cura di), Chi ha paura della bellezza?, Arcipelago Edizioni, Milano 2010.

A proposito del Bello, Freud afferma che la psicoanalisi non può e, quindi, non deve dirne nulla. Egli sostiene, infatti, che lo psicoanalista può solo imparare dall’artista che, attraverso la sua creazione, gli apre una via facendo esistere un oggetto nuovo, dando voce a quello che, in genere, resta rimosso, all’innominabile... Pur tendendo conto di queste sue indicazioni, possiamo comunque dire che la bellezza, soprattutto quella artistica, mette in gioco perlomeno tre personaggi: il soggetto-artista, l’oggetto artistico e l’Altro, rappresentato dal pubblico e dalla cultura in genere. In questo ambito la Bellezza prende forma e sostanza, ed entra a pieno titolo nel mondo nel legame sociale. Ma perché questa particolare prudenza da parte del padre della psicoanalisi? Potremmo forse pensare che ne avesse paura? 

Nel suo Seminario dedicato all’Etica, Jacques Lacan, nel 1960, ci dà alcune indicazioni utili per comprendere questa “prudenza singolare”. A partire dall’analisi della tragedia greca, in particolare dell’Antigone di Sofocle, Lacan afferma infatti che il bello è in un rapporto “singolare [...] ambiguo” con il desiderio dell’essere parlante. Il bello ha l’effetto, dice ancora Lacan, “di sospendere, di abbassare, di disarmare [...] il desiderio”, lo intimidisce, addirittura lo proibisce... è l’ultimo velo che copre, umanizzandolo, il desiderio e, soprattutto, il suo oggetto, è la rivelazione nel reale di quello avrebbe dovuto restare nascosto. La vista delle Tre Grazie del Canova, ad esempio, ci lascia letteralmente senza parole, è la presentificazione, per così dire, di un’alterità, di una trascendenza che si mostra nel suo bastare a se stessa. La Bellezza si mostra in questo eccesso di Reale e ci lascia – come si dice comunemente – basiti, ovvero senza forze, sbalorditi (nell’antico gallico, il verbo basire significava morire). E in questo senso, potremmo anche dire che il Sublime è uno dei nomi di quello che Lacan ha definito il Reale. Per questo motivo, sempre pensando alla bellezza classica, Lacan accosta il bello all’oltraggio: hanno entrambi a che vedere con il passaggio, il superamento di una linea invisibile, di un limite; la bellezza è così prossima al Reale, come solo l’oltraggio può esserlo. “Ma allora esiste!” potrebbero essere, forse, le sole parole possibili, di fronte al sorgere della Bellezza. Si, perché con la Bellezza viene all’esistenza qualcosa che sfugge alla castrazione, intesa come la destituzione narcisistica propria dell’essere parlante. È un tutto che tiene, una forma intesa come Gestalt, un Reale senza faglia, che viene ad esistere nella realtà. È il segreto della sublimazione artistica, che include anche l’Ideale

Secondo Lacan, nel mondo classico di Antigone, la bellezza fungeva da “barriera estrema”, da “soglia dell’entre-deux morts” che proibisce l’accesso all’orrore fondamentale, a Das Ding, la Cosa, ovvero al rimosso primordiale. Questo incontro con Das Ding, però, secondo Lacan, è connotato non tanto dalla paura, quanto piuttosto dall’angoscia, “l’unico affetto che non inganna”, l’affetto che si prova in presenza di un troppo di Reale. Ed è per questo che, come sostiene ancora Lacan, il “bello nella sua funzione singolare rispetto al desiderio non ci inganna”, esso produce effetti simili all’affetto d’angoscia. Ed è in questo senso che, ancora alla fine del suo insegnamento, Lacan accosta il bello al vero. 

Dal novecento in poi, ovvero nell’epoca in cui è più evidente la non esistenza di un Altro completo, pieno, riconducibile ad un unico principio (sia esso Dio o ogni altro significante-padrone), assistiamo a un vero e proprio pullulare di oggetti artistici che hanno fatto cadere diverse “barriere”, oltre a quella del Bello. Superata la barriera del Bello, essi si presentano come oggetti reali, senza velo, talvolta “brutti” ma spesso ironici, nel senso che – come la psicoanalisi – essi vengono a interrogare i dettami del mondo contemporaneo, la funzione assunta dagli oggetti nel mondo del cosiddetto capitalismo avanzato. Nel Mitomodernismo di Tomaso Kemeny e dei suoi compagni d’avventura ci pare di ravvedere, in- vece, una volontà – per così dire “ispirata” (“Fight for beauty!”) – di estrarre il Reale dal suo silenzio, attraverso la finzione del Mito, mentre la Bellezza è, per un poeta quale Kemeny, una vera e pro- pria “urgenza di riorientamento senza percorsi prestabiliti verso il futuro”.